QUEST'ANNO MI PIACE ONORARE GLI AMICI ESULI
GIULIANO-DALMATI
CON IL RACCONTO DI
RICCARDO ADRARIO
I ricordi!
Da
qualche anno ormai, nel mese di febbraio, si celebra in Ancona, come in altre
città d'Italia, "il giorno del ricordo" per non dimenticare, appunto,
quell'infausto 10 febbraio del 1947, quando, con la firma a Parigi del Trattato
di pace, buona parte del territorio nazionale sul confine orientale, tutta
l'Istria, con la città di Pola, le città di Fiume e Zara ci vennero strappate
per consegnarle alla nascente Jugoslavia di Tito.
La città di Trieste, in attesa di un
incerto destino, venne consegnata all'Amministrazione Militare Alleata.
Per non dimenticare, dicevo, perchè la
cosa è stata lungamente, per decenni, tenuta nell'oblio e praticamente
nascosta, quasi fosse, tra le altre cose, difficile spiegare all'opinione
pubblica, al tempo della "vulgata resistenziale" imperante che noi,
se con i vincitori della Seconda Guerra Mondiale, avevamo contribuito
"enormemente" alla sconfitta della Germania nazista, se vincitori,
come mai venivamo così tragicamente puniti con l'amputazione di territori e
l'abbandono, al di là del filo spinato di confine, di centinaia di migliaia di
connazionali.
Connazionali
che, non subito (a parte nei primi momenti di confusione quando la gente
fuggiva avventurosamente per mare e per boschi) e dopo aver tragicamente subito
l'orrore delle FOIBE, le deportazioni, angherie e discriminazioni di ogni tipo,
abbandonarono ogni avere e legame con la terra natia, per venire in Italia e
poi, in parte, disperdersi in ogni angolo del mondo.
Non fu facile: più di 300000, dalla
fine della guerra e per circa 10 anni, scelsero la strada dell'esodo,
ricevendo, a volte, in patria, poco benevoli accoglienze.
Quell'infelice periodo storico io l'ho
vissuto, nel passaggio dalla fanciullezza all'adolescenza e gli avvenimenti
subiti mi hanno, in qualche modo, mio malgrado, segnato nel carattere.
Il 10 febbraio di quest'anno, come ho
già detto, in Ancona, il Comitato Provinciale dell'Associazione Nazionale
Venezia Giulia e Dalmazia, ha organizzato, tra l'altro, anche una mostra
fotografica con esposti numerosi pannelli illustrativi che parlavano dei
diversi periodi storici e delle diverse dominazioni alle quali quelle terre
erano state sottoposte. Scorrendo velocemente con lo sguardo i pannelli citati,
mi sono soffermato a guardare, con particolare interesse, quello che illustrava
il ritorno delle truppe italiane a Trieste il 4 novembre 1954, sì, perchè quel
giorno, a Trieste, IO C'ERO!
C'ero
talmente che, con profonda emozione, ho riconosciuto, al centro di una piccola
fotografia, in mezzo a tanti manifestanti e alle numerose bandiere al vento di
quell'indimenticabile giorno, il mio viso ventenne.
Ero arrivato a Trieste in treno da Macerata,
dove dal 1950, dopo esser partito dall'Istria con i miei genitori, ci eravamo
sistemati, provenienti dal Centro Raccolta Profughi di Servigliano (AP), che
era stata la nostra ultima destinazione da esuli.
Non avendo ancora vent'anni, avevo
appena conseguito (con la media dei voti più alta della mia classe) il diploma
di geometra e mio padre, a conoscenza degli avvenimenti che interessavano
Trieste mi indusse, e fu un gradito premio, ad affrontare quel viaggio.
Con
un biglietto ferroviario A/R, rilasciatomi dal Distretto Militare di Macerata
che per l'occasione era fortemente scontato (o addirittura gratuito) e con in
tasca 3000 lire (a quel tempo erano una cifra) raggiunsi il giorno 3 di
novembre, viaggiando in piedi tutta la notte, la città nuovamente Irredenta.
Sì, Irredenta, perchè dopo una decina
d'anni in mano straniera, dopo alterne vicende, ritornava finalmente alla Madre
Patria.
In
città, ospitato dalla famiglia di una cugina di mia madre che aveva un figlio
ventenne come me, assieme a quest'ultimo, praticamente avvolto nella
bandiera tricolore, ho scorazzato per tre giorni per le vie, le piazze e i moli
di Trieste tra una folla festante, inebriata e commossa che salutava e
abbracciava i militari italiani, saliva sui mezzi in sfilata e sulle navi
militari in porto. Soprattutto le ragazze (le mule di Trieste) con la loro
prorompente giovinezza e irrefrenabile gioia, ricoprivano di baci i ragazzi in
divisa. Quanto li invidiavo!
Da
un'altra foto di quel pannello si staglia la sagoma dell'Amerigo Vespucci, nave
scuola della marina militare che io, quel giorno, assieme a tanti altri ho
potuto visitare.
Sfruttando
la gioiosa confusione e approfittando della distrazione dei marinai di guardia,
con giovanile incoscienza, mi sono arrampicato lungo le sartie dell'albero di
maestra della nave cercando di salire più in alto possibile, forse per aggiungere
la mia bandiera alle tantissime del "gran pavese" che già garrivano
al vento, quando, con fare imperioso, il nostromo di bordo (usando il
fischietto) mi impose di scendere. Dovevo retrocedere, ma la bandiera, scendendo
lungo la schiena fin oltre i talloni, mi intralciò talmente la manovra che
rimasi bloccato finchè un marinaio, appositamente incaricato, mi venne a
liberare. Non fui nemmeno rimproverato. Quella era, evidentemente, una magica
radiosa giornata.
Mi è stato chiesto di ricordare qualche
episodio della mia vita riguardante il periodo pre e dopo l'esodo. Bene!
Non voglio rievocare episodi cruenti,
che pure ci furono, ma nello spirito del "giorno del ricordo", cioè
per informare gli ignari sugli accadimenti di quel tempo, mi viene in mente un
fatto curioso che, nella sua banalità, è stato determinante per l'evolversi
degli avvenimenti.
Rovistavo, ancora bambino, tra le
cianfrusaglie della soffitta di casa, quando, con mia grande sorpresa,
rinvenivo tra le cose dimenticate un cofanetto di legno intarsiato con il
coperchio in rilievo raffigurante animali misteriosi. Era, per la mia fantasia,
sicuramente lo scrigno contente il tesoro di qualche antico pirata.
Lo
scrigno conteneva veramente "un tesoro" che, per le circostanze
storiche di allora ha, credo, influito favorevolmente su quanto accaduto più
avanti.
Conservate
con amorevole cura, divise in gruppi per date, nello scrigno del pirata c'erano
le lettere e cartoline che, da militare, mio padre spediva alla mamma e quelle
di lei in risposta ma, soprattutto, quelle lettere che, attraverso il servizio
postale della Croce rossa internazionale (ah, averli oggi quei francobolli!)
quasi 40 anni prima, due giovani sposi si scrivevano attraverso i fronti di
guerra.
Mio padre, fantaccino dell'Impero
Austro-Ungarico, era prigioniero in Russia dove l'Impero, per ovvie ragioni
(l'Italia era entrata in guerra) destinava i coscritti istriani. E allora?
Bisogna sapere che, perduta la
cittadinanza italiana con l'arrivo degli slavi in Istria, a seguito degli
accordi internazionali di pace, i suoi abitanti potevano riottenerla facendo
domanda di "opzione" per essa. Ma non era una cosa automatica in
quanto dopo i primi momenti di facile accoglienza delle domande, le Autorità
jugoslave, sorprese dall'ampiezza del fenomeno, non potevano sopportare l'esodo
in massa della popolazione che avrebbe, tra l'altro, depauperato il tessuto
industriale delle maestranze qualificate, indispensabili allo sviluppo del
nuovo stato.
Partivano,
infatti, dopo aver ottenuto l'opzione, tanti operai e tecnici delle industrie
istriane.
Subentrò,
quindi, una stretta nelle concessioni e molte richieste vennero respinte,
vennero disposti ostacoli e ostracismi di ogni tipo per soffocare l'esodo incombente.
Bisognava dimostrare, in maniera
decisiva, di essere italiani.
Così, dopo che la nostra domanda
d'opzione si era "fermata", per la seconda volta, a Belgrado, a mio
padre venne l'ispirazione di far notare, direttamente alle autorità slave, come
mai due cittadini istriani che al tempo del primo conflitto mondiale,
scrivendosi da fronti di guerra opposti, quando l'Istria non era ancora
italiana (e men che meno slava), lo facevano esprimendosi nella loro lingua
madre italiana. Quelle lettere, quindi, finirono con le relative carte bollate,
in qualche cassetto del Ministero degli Interni di Belgrado e furono, quasi
sicuramente, decisive al raggiungimento del nostro scopo.
Infatti, un giorno di giugno del 1950,
riuscimmo a partire per l'Italia.
Mi chiamo ADRARIO Amato Riccardo, vado
per gli 80 meno 2 (mi piace il primo numero perchè rappresenta un auspicio, per
ora, poi si vedrà); sono nato in un ridente paesino di pescatori adagiato sulla
costa orientale dell'Istria a 12 km circa dalla città di Abbazia, conosciuta,
quest'ultima, quale importante centro turistico già dal 1800 in quanto
frequentata dalla nobiltà della corte imperiale degli Asburgo. Anche il
paesino, da tempo, nutriva velleità e ambizioni turistiche, oggi ampiamente
conseguite.
Un gruppo di case che, su un lato, dal
molo alla montagna si addossano a salire, una sull'altra, raggiungendo il verde
dei boschi, mentre altre, in fila lungo la spiaggia si espongono, al mattino,
ai raggi del sole nascente.
Affacciato
sul golfo di Fiume (o del Carnaro), arricchito dalla presenza alle sue spalle
del Monte Maggiore (1492 s.l.m.) che, con la sua ombra lo protegge dai caldi
pomeriggi estivi, un piccolo torrente che, d'inverno, poteva rivelarsi
impetuoso, divideva i due gruppi di case così che la gente, scherzando, si
distingueva tra quelli di qua o di là del ponte. A proposito di detto ponte,
ricordo che quando giunsero gli slavi, le autorità disposero la sua demolizione
perchè, si mormorava, dava fastidio in quanto somigliante a un famoso ponte di
Venezia così come fu rimossa, dalla facciata del municipio (e nascosta chissà
dove), la pietra scolpita raffigurante
il leone di S. Marco alato che, con la zampa sul libro aperto, ricordava il
lungo dominio della Serenissima su quelle terre.
Ricordo le brezze leggere che facevano
filare veloci le barchette a vela della mia infanzia, la bora sferzante, le
limpide e trasparenti acque dei miei bagni, la vita del mare. Dalla finestra
della mia cameretta, ogni mattina, scoprivo, vicina e amichevole, la punta
rocciosa dell'isola di Cherso rivolta verso nord e, più lontano, a est,
scorgevo le vette del Velebit, facente parte delle Alpi Dinariche, già in
Jugoslavia.
Sradicato
da questo mio paradiso (che oggi si può facilmente individuare cliccando su
Google la parola Valsantamarina) mi sono ritrovato improvvisamente, all'età di
15 anni, in un ambiente diverso: lontano dal mare, dai giochi abituali, dagli
amici, e...
Ma
perchè quelli nuovi (intendo gli amici) della Patria agognata nell'indicarmi ai
loro compagni dicevano (magari senza cattiveria) : "Vedi quel ragazzino
biondo?! E' uno slavo", se quelli di là nella Patria perduta, venuti da
fuori, mi chiamavano, con palese disprezzo "svinja talijanska" cioè
maiale italiano?
I primi tempi, a Macerata, sono stati
difficili, ma poi...
In uno dei primi giorni di scuola
(medie superiori) ci venne richiesto di imparare, a memoria, la poesia di Ugo
Foscolo "A Zacinto". Poichè il mio cognome incomincia con la lettera
"A" ed ero seduto al primo banco, la professoressa mi invitò a
declamarla, chiamandomi in cattedra.
Cominciai:
"Nè più mai toccherò le sacre sponde dove il mio corpo fanciulletto
giacque, Zacinto mia, che ti specchi nell'onde del greco mar..." e , quasi
senza rendermene conto, il mio viso
prese a rigarsi di lacrime. Parlavo del greco mar ma pensavo al mio che,
credevo allora, non avrei mai più rivisto. Naturalmente mi sbagliavo, ma allora
non si potevano prevedere, dati i tempi, i successivi eventi della Storia.
La
professoressa, sorpresa e sbalordita nel vedere in lacrime quell'alunno pallido
e mingherlino, com'ero a quel tempo, mi interruppe quasi subito e, senza
chiedermi niente, mi rimandò al banco. Naturalmente, più tardi, informandosi
sulle mie condizioni, mi prese in simpatia.
Da quel giorno ho sempre preso 8 in
italiano (che gli altri compagni si sognavano) e fu la mia silenziosa rivincita
e, forse, una piccola vendetta per i torti subiti. Ma ero bravo...RICORDO!
20.03.2013