martedì 31 luglio 2012

Da che parte stare?

L'Ilva ci ricorda quanti danni abbia prodotto in Italia l'ideologia ambientalista

Giuliano Cazzola

30 Luglio 2012 ( L'Occidentale)

Il dramma dell’ILVA di Taranto pone a noi tutti interrogativi molto seri. Rischia la chiusura uno stabilimento storico, uno degli ultimi capisaldi dell’industria di base, già di mano pubblica poi dismesso ai privati, sicuramente uno dei pochi presìdi industriali del Mezzogiorno, ma per le sue caratteristiche produttive vera e propria spina dorsale dell’apparato manifatturiero italiano.

Taranto è stata bloccata per lunghe ore dalla protesta dei lavoratori, mentre comitati di cittadini difendevano la decisione della magistratura di bloccare le aree produttive più critiche della acciaieria, ritenuta responsabile di un devastante inquinamento ambientale e della diffusione di patologie oncologiche dovute – è questa l’accusa - alle emissioni provenienti dagli impianti. Per fortuna il Governo è stato in grado di intervenire tempestivamente con un piano di bonifica e di risanamento, dotato di un ragguardevole finanziamento, che può costituire una risposta della politica alla crisi, sempre che si riesca ad assicurare, in sede di riesame delle richieste dei pm, la continuità produttiva dello stabilimento; in sostanza, sempre che prevalga una gestione razionale e consapevole di una fase che, in mancanza, potrebbe avere effetti devastanti. Perché in ballo non vi sono soltanto 12mila posti di lavoro a fronte del diritto alla salute di 150mila persone residenti. E’ l’intera città (e non solo essa) a vivere sulla fabbrica che è pur sempre una delle ultime grandi acciaierie sopravvissute in Europa.

Appare fin troppo facile affermare che lavoro e salute non possono essere in alternativa tra di loro. La tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori ha costituito l’embrione di quei diritti sociali che hanno formato, nel tempo, un moderno sistema di welfare. Basta risalire alla fine del XIX secolo per trovare l’affermazione, nelle prime legislazioni di carattere sociale, del principio del in forza del quale il datore, proprio perché si avvale del lavoro dei propri dipendenti ha il dovere di garantire loro condizioni di sicurezza e di risponderne in presenza di eventi negativi quali gli infortuni e le malattie professionali sulla base di una presunzione assoluta della pericolosità del lavoro, soprattutto in ambienti in cui siano operativi e funzionati degli impianti e dei macchinari.

La legislazione più recente (ma risalente ormai a parecchi decenni) ha individuato dei nessi di responsabilità dell’impresa nei confronti del territorio circostante. Così esistono precise regole sulle emissioni, gli scarichi, lo stoccaggio dei materiali di scarto, specie se pericolosi, e quant’altro: regole la cui frequente violazione ha prodotto devastazioni ambientali inaccettabili, avvelenando i fiumi, il mare, l’aria, la terra, le acque. Nel contesto della globalizzazione la possibilità o meno di saccheggiare il territorio (al pari di quella di sfruttare la forza di lavoro) è diventata una componente di quella corsa alla competitività che non ha più rispetto di tutto quanto può diventare un costo, un vincolo o un impedimento.

Sulla base di tali considerazioni e di tante altre di analogo tenore, sarebbe facile schierarsi con i pm che hanno disposto la chiusura delle aree a caldo dell’Ilva e disposto l’arresto di alcuni dirigenti. Se non che è arduo sottrarsi ad un’assillante domanda: a chi si renderebbe giustizia in un deserto? Tanto più che nei provvedimenti di sequestro sembra che non si tenga conto delle migliorie che sono state apportate ai cicli produttivi negli ultimi anni.

Ma non è la prima volta che difesa del lavoro e protezione dell’ambiente entrano in conflitto. E’ stato così, più o meno, in tutti i centri disseminati per l’Italia – da Marghera a Genova, da Piombino a Ferrara, a Ravenna, a Bagnoli, a Priolo, a Gela fino alla Sardegna – dove, tra gli anni 60-70 del secolo scorso, era stata dislocata l’industria di base siderurgica e chimica. E, alla fine, le istanze radicalmente ambientaliste (grazie anche ai processi di crisi industriale non solo in Italia, ma in gran parte della Europa) hanno avuto una facile vittoria di Pirro. Le ciminiere che sfidavano il cielo sono spente, gli impianti che occupavano il territorio per decine di Kmq sono diventati esempi di archeologia industriale.

Laddove sorgevano fabbriche ora si estendono ipermercati o sono sorti alveari abitativi. I grandi dinosauri sono morti. Ma ora il Paese è più povero e il lavoro più precario. In queste vicende hanno pesato travolgenti trasformazioni economiche derivanti dalla nuova distribuzione internazionale del lavoro (salvo accorgerci adesso dell’importanza strategica dell’industria di base che, proprio perché , è stata delocalizzata nei paesi emergenti), per cui sarebbe veramente fuori luogo trarre conclusioni semplicistiche legate ad una vicenda, come quella dell’ILVA, che, speriamo, possa risolversi nel migliore dei modi, salvaguardando lavoro e ambiente.

Ma una considerazione merita di essere effettuata. Esiste in molte circostanze, da noi, l’atteggiamento incoerente di chi vorrebbe sviluppo, lavoro e benessere, ma ne rifiuta i corollari inevitabilmente negativi. E’ il caso del rifiuto ideologico dell’energia nucleare oppure delle sollevazioni popolari contro i termovalorizzatori, gli inceneritori, le discariche controllate. Come se si prendessero di mira i processi produttivi necessariamente sottoposti, proprio per la loro alta dose di rischio, a protocolli di sicurezza, nello stesso momento in cui si consente all’economia sommersa – magari avvalendosi di braccia straniere - di provvedere brutalmente ad assicurare quanto si nega all’economia emersa e regolare. Produrre l’acciaio, poi, non è come lavorare (con tutto il rispetto) all’Agenzia del Territorio o a Poste Italiane. Ai tempi dei nostri nonni e bisnonni si moriva di fame, di pellagra, di malaria, magari di influenza (ricordate la c.d. Spagnola che seminò milioni di vittime nel mondo?) ad un’età in cui, oggi, i giovani si pongono il problema se è venuto il momento di lasciare la casa paterna e mettere al mondo dei figli. Adesso, anche le patologie sono differenti. Ma allora come oggi, vi è sempre un saldo rapporto tra l’essere umano e l’ambiente in cui vive. Dal Paradiso Terrestre Adamo ed Eva furono cacciati milioni di anni fa. Da allora nessuno ci ha più rimesso piede.

P.S. Alla mia rubrica di lunedì scorso sono stati dedicati parecchi commenti. Alcuni mi hanno colpito per una faziosità che rasenta la menzogna. Come si fa sostenere – e in base a quali elementi di fatto – che è stato l’annuncio di voler ridiscendere in campo di Silvio Berlusconi (evento che può essere o meno condiviso) a determinare l’impennata dello spread?


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Ancona, 29 luglio

Liti e dimissioni, Ancona ostaggio del Pd

luglio 2012 - C’è un partito, il Pd di Ancona, che sfiducia il suo sindaco, Fiorello Gramillano, annunciando in un sol colpo la fine del mandato e le elezioni anticipate. E poi c’è la segreteria regionale dello stesso partito che non accetta quel verdetto mettendone in discussione la legittimità e paventando quindi il commissariamento dell’assemblea dei democratici dorici. Ma soprattutto c’è una città, l’Ancona capoluogo delle Marche, letteralmente in ostaggio di un partito disintegrato al suo interno da mille frange e nessuna chiarezza su quale rotta prendere.


C’è tutto questo e anche di più nel caos politico che sta imprigionando Ancona: 3 anni di amministrazione Pd con 14 assessori dimessi, una maggioranza partita con Idv, Pdci-Prc e Socialisti che si è ritrovata a governare in compagnia dell’Udc (che stava all’opposizione) per rimanere a galla e sopravvivere alle bordate dei dipietristi, che ne hanno messo a rischio la tenuta a pochi mesi dalla vittoria elettorale. Il resto sono pochissime delibere votate, una città immobilizzata dalle continue liti politiche, nessun progetto ad ampio raggio e un degrado urbano mai visto prima.

Insomma, roba che se succedesse dalle parti di città più grandi farebbe piombare all’ombra del Monte Conero il segretario nazionale del Pd, Bersani, per richiamare all’ordine un partito che alle prossime elezioni rischia di prendere una sonora bastonata. E invece qui siamo ad Ancona e ci sono solo le battute nazionalpopolari del segretario regionale, sempre Pd, Ucchielli: "Gramillano? E’ come la torre di Pisa che pende, ma mai vien giù".

di Andrea Brusa (Dal Resto del Carlino)


lunedì 30 luglio 2012


Che tripletta, l’orgoglio azzurro è femmina


Ci volevano le Olimpiadi per ri­dare fiducia a noi stessi, italia­nucci bistrattati dallo spread, dal debito pubblico e dalle tasse. Ieri, per un giorno, ci siamo sentiti superio­ri a tutti

Il Giornale

Ci volevano le Olimpiadi per ri­dare fiducia a noi stessi, italia­nucci bistrattati dallo spread, dal debito pubblico e dalle tasse. Ieri, per un giorno, ci siamo sentiti superio­ri a tutti. Il nostro orgoglio - scusate la ridondanza - è femmina. Le ragazze di bandiera tricolore sono in vetta alla scherma mondiale: hanno conquista­to tre medaglie su tre nel fioretto.
Un trionfo senza precedenti. Un miracolo della scuola jesina.
Oro, argento e bronzo: tutta roba di casa nostra. Qualcuno ci sperava, ma nessuno ci credeva. Invece la re­altà della prima giornata londinese a cinque cerchi è questa: dominio as­soluto in pedana, in uno sport mici­diale che richiede doti mentali, di tempera­mento, atletiche. Uno sport maschile per definizione nel quale, tuttavia, le donne italiane eccellono da sempre.
Valentina Vezzali si era aggiudicata tre Olimpiadi di seguito. Avrebbe vinto la quarta, se il suo fisico di trentottenne aves­se retto fino in fondo, eguagliando l’im­presa storica del più grande schermidore di ogni tempo: Edoardo Mangiarotti, mor­to di recente ultranovantenne. Che atle­ta, che uomo, che carattere: fioretto e spa­da, due armi maneggiate con classe subli­me.
La Vezzali comunque, nonostante l’età,nonostante la sfortuna,ha dimostra­to ancora una volta di essere una dea. Non è entrata in finale per un soffio, ma quando si è trattato di battersi per la terza medaglia ha tirato fuori l’anima: sotto di tre punti, ha rimontato in una manciata di secondi e ha piazzato poi la stoccata vin­cente nel cuore generoso dell’avversaria.
Valentina ci ha commossi con la sua grinta inossidabile, con la sua tecnica, con la sua capacità rabbiosa di spremere i muscoli sfidando il dolore della fatica. La scherma, e non parlo per sentito dire, è una disciplina che a un certo livello logo­ra i nervi, stressa, affatica, uccide dentro: vedere le nostre tre signore lottare, come hanno fatto ieri, esalta e sconvolge. Sul gradino più alto del podio è salita Elisa Di Francisca, ovviamente jesina. Giuro, sa­pevo che avrebbe vinto dopo aver ascolta­to una sua intervista: spavalda, giocherel­lona, serena, aveva lasciato intuire di esse­re pronta per il medaglione. Lo ha ottenu­to con merito. Fredda come un ghiaccio­lo, lucida e spietata: il decisivo assalto con­tro Arianna Errigo è stato un capolavoro di tattica e di intelligenza schermistica. Il suo ferro sembrava ispirato da una divini­tà. L’abbiamo ammirata,Elisa,e ora lalo­diamo con tutto l’entusiasmo che ha su­scitato in noi la sua prodezza. Confesso di aver fatto il tifo per la Vezza­li, perché mi piace, perché lei è una madri­na delle nostre campionesse, perché era giusto chiudesse la carriera luminosa col metallo più prezioso appeso al collo. Non importa. La sua performance è stata co­munque degna dell’abbraccio di sessan­ta milioni di italiani, che identificano in lei il capitano indomito di una squadra meravigliosa.La squadra dei miracoli.Al­la quale si aggiunge quella degli atleti del­l’arco, che pure ha conquistato l’oro supe­rando gli Stati Uniti. Vabbé, dopo tante amarezze, in tutti i cuori, lo sport ci ha re­galato un po’ di gioia. Almeno oggi, con­sentitemi di esultare.

venerdì 20 luglio 2012

Dal Carlino

Bandiere del gusto 2012, sono 150 nelle Marche Dal salame al vino cotto

Coldiretti

Ecco le specialità che rappresentano il motore del turismo del cibo, quelle ottenute secondo regole tradizionali protratte nel tempo per almeno 25 anni

Salame (Fotoprint)
Salame (Fotoprint)

Ancona, 19 luglio 2012 - Sono 150 le “Bandiere del gusto 2012” nelle Marche, le specialità ottenute secondo regole tradizionali protratte nel tempo per almeno 25 anni che rappresentano il motore del turismo del cibo. Il censimento 2012 del patrimonio enogastronomico regionale è stato presentato a Roma dalla Coldiretti, in occasione dell’incontro “L’Italia che piace nell’estate 2012: il turismo ambientale ed enogastronomico” organizzato insieme alla Fondazione Univerde.

Nella classifica delle specialità dominano pane, pasta e biscotti con 44 diverse tipologie di prodotti (come i Maccheroncini di Campofilone o la Lonza di fico), seguiti da 41 verdure fresche e lavorate (dal Carciofo monteluponese al Marrone di Acquasanta Terme), 30 salami, prosciutti, carni fresche e insaccati di diverso genere (come il Salame di Fabriano), 11 formaggi (dal Casecc al Pecorino in botte), 8 bevande tra analcoliche, liquori e distillati, dal vino cotto al vino di visciole, 7 tipi di olio, 4 prodotti di origine animale (miele e ricotte) 4 condimenti (tra cui la Salamora di Belvedere) e una preparazione di pesce.

Un lavoro, ricorda la Coldiretti Marche, finalizzato a proteggere dalle falsificazioni e a conservare anche in futuro, nella sua originalità, il patrimonio delle tipicità. Ma i prodotti tipici rappresentano anche il vero motore del turismo enogastronomico. Secondo l’indagine Coldiretti presentata a Roma, per più di un italiano su tre (35 per cento) dipende proprio dal cibo il successo della vacanza che per essere perfetta non deve mai far mancare la degustazione delle specialità enogastronomiche locali. Il cibo infatti è considerato dagli italiani l’ingrediente più importante della vacanza che batte la visita a musei e mostre, (29 per cento), lo shopping (16 per cento), la ricerca di nuove amicizie (12 per cento), lo sport (6 per cento) e il gioco d’azzardo (2 per cento).



mercoledì 18 luglio 2012

Dal CARLINO

Trattore prende fuoco, bruciato un chilometro quadrato

Falconara Marittima

Incendio vicino all'autostrada


Falconara Marittima (Ancona), 17 luglio 2012 - Poteva avere conseguenze ben più gravi l’incendio divampato ieri attorno alle 12 in via Pojole, nelle campagne che si stendono alle spalle di Rocca Priora, tra la Statale Adriatica e l’Autostrada A 14.
Fortunatamente l’intervento immediato dei vigili del fuoco di Ancona, accorsi con due squadre e due autopompe, è riuscito a circoscrivere le fiamme: il rogo è stato domato appena in tempo, subito prima che si propagasse agli appezzamenti vicini alimentato dalla paglia e dal vento. A quel punto sarebbe stato difficilissimo circoscrivere le lingue di fuoco e i danni sarebbero potuti essere ben più gravi.


A provocare il violento e improvviso rogo, l’incendio di un trattore impegnato al lavoro nell’appezzamento coltivato a grano, che era stato già mietuto, in un’area che si trova a breve distanza dal nuovo Autogrill Esino Est.
Il pericolo numero uno dei frequenti incendi estivi, ovvero il vento, e la vittima predestinata, la paglia secca, si sono incontrati subito. Il campo arso da sole si è acceso in un lampo e le fiamme si sono propagate velocemente attorno al trattore, aggredendo un’area di circa mille metri quadri. A quesl punto però i vigili del fuoco erano già riusciti ad arrivare sul luogo e a mettersi al lavoro.
Provvidenziale infatti l’intervento dei vigili del fuoco di Ancona, che sono arrivati in forze e nel giro di un’ora sono riusciti a domare l’incendio. E’ stato possibile evitare che il rogo attaccasse i campi vicini e soprattutto si è impedito che le fiamme si spingessero fino alla vicina casa colonica, evitando danni alle persone e ai tanti animali da cortile che vengono allevati nell’aia. Il raggio dell’incendio ha infatti sfiorato un fosso che segna il confine tra l’appezzamento e la recinzione del casolare. L’allarme è rientrato attorno alle 13.

martedì 10 luglio 2012


Disastro energia verde Moltiplica i disoccupati

Le rinnovabili hanno aumentato le bollette, messo in crisi l’industria e cancellato migliaia di posti di lavoro. E la protesta finisce in piazza


Il Giornale


In Germania è ancora un allarme circoscritto a esperti e industriali, ma in Spagna siamo già alle rivolte di piazza, con i minatori che stanno marciando su Madrid e l'intera regione delle Asturie in tumulto.
La conversione alla Green economy sta già facendo vittime, come era facilmente prevedibile, e le vittime cominciano a ribellarsi. Domani a Madrid è previsto l'arrivo della «Marcia Nera», centinaia di minatori partiti un mese e mezzo fa dalle Asturie - dove è concentrata larga parte delle miniere di carbone - a cui si sono aggiunti per strada altri colleghi delle miniere di Leon e Palencia (dove si estrae il carbone di migliore qualità). É una protesta dura, con uno sciopero che dura da due mesi e ripetuti scontri con le forze dell'ordine, contro la decisione del governo Rajoy di tagliare del 63% i sussidi statali all'industria del carbone (l'unica risorsa energetica significativa prodotta in Spagna), che ammontano a 300 milioni di euro l'anno. In realtà il governo di centrodestra c'entra poco, perché in questo caso obbedisce soltanto a una direttiva europea che stabilisce la cessazione di ogni aiuto statale all'industria del carbone entro il 2018, mentre si moltiplicano gli incentivi per l'energia da fonte rinnovabile. Inoltre è stato il governo di Zapatero a imprimere 10 anni fa una svolta «verde» alla politica energetica spagnola: 60 miliardi di euro di investimenti nell'energia rinnovabile tra il 2000 e il 2010, che hanno creato 50mila posti di lavoro, ma solo 5mila permanenti. Nello stesso tempo è iniziato lo smantellamento dell'industria del carbone, che negli anni '80 impiegava ben 50mila lavoratori e ora solo poco più di 5mila, di cui oltre la metà è ora a rischio. A fronte di un investimento enorme, arrivato oggi a sfiorare i 100 miliardi di euro (curiosamente la stessa cifra stanziata dalla Ue per salvare le banche spagnole), il saldo per l'occupazione è disastrosamente negativo.
E potrebbe andare ancora peggio in Germania, capace di trascinare con sé il resto d'Europa, come peraltro ha già cominciato a fare. I segnali sono inquietanti: non solo i cittadini tedeschi hanno visto aumentare in dieci anni la loro bolletta energetica del 57% (ora la Germania è seconda solo all'Italia per il costo dell'energia), uno studio uscito nei giorni scorsi quantifica in 300 miliardi di euro il costo aggiuntivo per i tedeschi da qui al 2030 per i sussidi alle energie rinnovabili. É rilevante che a lanciare l'allarme sia stato Georg Erdmann, un professore di Energetica che il governo stesso ha nominato pochi mesi fa nel comitato di esperti chiamato a seguire la «rivoluzione energetica» tedesca. É questo il progetto voluto 10 anni fa dal governo di coalizione tra socialdemocratici e Verdi, che prevede la chiusura totale delle centrali nucleari e l'incremento dell'energia rinnovabile fino all'80% del totale entro il 2040. La Merkel ha confermato questo impegno; aveva inizialmente cercato di salvare il nucleare ma dopo l'incidente di Fukushima ha stabilito per il 2022 la data dello stop all'atomo. Ma la transizione all'energia verde si sta già dimostrando un clamoroso autogol: solo quest'anno, i sussidi alle energie rinnovabili ammontano a 14,1 miliardi di euro, un costo che per l'industria sta diventando insostenibile. A pagare le maggiori conseguenze sono il settore chimico, metallurgico e cartario. Nell'industria dell'alluminio l'elettricità rappresenta ormai il 40% del costo totale, una situazione che ha già costretto alcune grosse aziende, come la Voerdal, a chiudere. Ma una protesta decisa è venuta anche dall'associazione che riunisce le aziende siderurgiche mentre il Commissario europeo all'energia, il tedesco Guenther Oettingher ha chiaramente parlato di processo di de-industrializzazione in corso. Lo stesso Oettingher ha chiesto a livello europeo un taglio ai sussidi per il solare almeno del 30%, obiettivo condiviso anche dalla Merkel. Almeno fino a pochi giorni fa, quando il suo nuovo ministro dell'Ambiente Peter Altmaier, ha sorpreso tutti cancellando i tagli previsti e annunciati. La decisione rende ora impraticabile la promessa della Merkel di contenere il costo sulla bolletta per i sussidi al rinnovabile a 3,5 centesimi il kilowattora: secondo Erdmann il costo schizzerà ad almeno 10 centesimi.
Adesso si vedranno le reali convinzioni della Merkel: se andrà avanti verso il suicidio politico ed economico oppure se farà fuori il secondo ministro dell'Ambiente, dopo il defenestramento di Norbert Roettgen in maggio.

martedì 3 luglio 2012


Azzurri accolti in Quirinale da Napolitano: "Siete come l'Italia. Bravi ma molto da fare"


La nazionale di ritorno da Cracovia viene accolta dal presidente della Repubblica. A Napolitano il gagliardetto, un pallone con le firme e la medaglia. Abete: "Qui per dire grazie". Prandelli: "Ci ha aiutato a sopportare la sconfitta"


Il giornale

La nazionale italiana torna da Cracovia. Atterra all'aeroporto romano di Fiumicino, da dove si avvia verso il Quirinale, per incontrare il Presidente della Repubblica
Atterra tra due ali di folla, circa mille persone, che accolgono gli azzurri tra gli applausi scroscianti al terminal 1.
Poi via sul pullman. Intorno a loro gli striscioni recitano quello che pensano tutti: "Grazie, bravi ragazzi". Perché forse nessuno si aspettava, alla partenza, di giocarci una finale europea con i campioni in carica.
"Hai ridato fiducia a tutti", grida qualcuno, all'indirizzo di Prandelli, a suggellare il miracolo compiuto dal ct azzurro, in grado di far tornare la nazionale - retorica a parte - nel cuore dei tifosi, che al posto di recriminare riconoscono il lavoro del commissario tecnico e della squadra.
Gli azzurri arrivano al Quirinale, accolti nel Salone delle Feste, guidati dal capitano, Gigi Buffon. Dietro di lui Giorgio Chiellini, poi Pirlo, De Rossi e tutti i calciatori della nazionale. Con loro anche Giancarlo Abete, presidente della Figc, che rivolgendosi a Napolitano esprime il pensiero di giocatori e non: "Abbiamo fatto il nostro dovere, abbiamo onorato il paese e abbiamo dato un’immagine costruttiva.  Pensiamo di aver fatto il massimo, siamo qui per dirle grazie, grazie, grazie
"Avevamo l'obiettivo di arrivare il due luglio", aggiunge Abete. Obiettivo centrato. "Siamo delusi, perché quando si gioca si ha l'obiettivo della vittoria". Ma non del tutto, perché un secondo posto contro la Spagna di ieri sera si può accettare tranquillamente.
Napolitano la nazionale offre come ringraziamento il gagliardetto italiano e il pallone con le firme di tutti, in segno di ringraziamento "per la fiducia con cui ci ha accompagnato in questa avventura europea". Buffon rinuncia alle grandi parole. Si limita a presentare uno per uno "i compagni d'avventura". E Prandelli consegna a Napolitanom che "ha aiutato a sopportare la sconfitta, grazie ai valori espressi nella lettera che ci ha inviato" la medaglia d'argento, segno di un secondo posto meritato e che fa tutti "contenti e orgogliosi".
Napolitano ringrazia e tenta il parallelismo. Gli azzurri sono come l'Italia, la rappresentano bene: "Avete ottenuto risultati straordinari che pochissimi potevano mettere nel conto". E le sue parole "valgono dopo Kiev esattamente come valevano prima di Kiev". Certo, la strada da fare è tanta. "Sto parlando del calcio o dell’Italia? I discorsi si assomigliano