domenica 30 settembre 2012

LEZIONI  FRANCO  ANGELERI


LA  COSCIENZA: DALLA TEORIA ALLA PRATICA



RELATORE:   GIULIO TONONI 
                   University of Wisconsin (Usa)

PRESENTA: FIORENZO CONTI
                 Università Politecnica delle Marche

        VENERDI'   5 OTTOBRE 2012  ORE  18

         presso Rettorato Università Piazza Roma 22 Ancona




giovedì 27 settembre 2012

L'Italia degli enti locali non funziona
E le Regioni sono da abolire

di Antonio Martino (Il Tempo)

 Il bubbone più urgente da eliminare sono le regioni. L'ottanta per cento del loro bilancio è costituito da spesa sanitaria: è sensato avere un Presidente, un governo e un parlamento, oltre a una vasta burocrazia regionale, per amministrare le spese della sanità? A me non sembra.

Gli episodi poco edificanti degli ultimi tempi dovrebbero costringere tutti quelli che hanno a cuore il futuro dell'Italia a una riflessione ineludibile: il sistema di governo locale è indifendibile e va cambiato con la massima urgenza. Non c'è quasi regione italiana che non sia stata investita da scandali connessi alla gestione avventurosa quando non truffaldina del pubblico denaro. Dalla Lombardia alla Sicilia, passando per il Lazio e la Puglia, è stato un susseguirsi di sordidi episodi di malaffare, sprechi, ruberie e simili. Ciò che i contribuenti versano all'erario è stato trattato come res nullius e utilizzato per arricchimenti personali e futili spese. È il momento di cambiare, ogni giorno di ritardo ci costa letteralmente milioni di euro. Secondo i dati riferiti nella Relazione della Banca d'Italia il 31 maggio scorso, nel 2011 le spese totali delle Amministrazioni Pubbliche sono state pari a quasi 800 mila milioni di euro (798.565): ben oltre due miliardi di euro (2.187.849.315) ogni santo giorno dell'anno, quasi 100 milioni (91.160.388 euro) ogni ora, un milione e mezzo (1.519.339 euro) ogni minuto! Le amministrazioni locali hanno comportato una spesa di quasi 250 miliardi (242.905 milioni), la bellezza di oltre quattro mila euro (4.167) per ogni italiano: si tratta di un'enormità che dovrebbe essere ridotta. Come? A me sembra, e credo di averlo ripetuto ad nauseam su queste colonne, che gli enti di governo locale siano troppi sia come numero complessivo sia come livelli. Non sono certo che sia davvero necessario avere i consigli di quartiere, i municipi, i Comuni, le aree metropolitane, le province, le regioni, le comunità montane, i parchi nazionali, per non parlare dello Stato e dell'Unione Europea. Potremmo benissimo averne molti di meno: se vogliamo le aree metropolitane, le province e le regioni sono palesemente inutili. Non credo ci sia nessuno disposto a sostenere che non possiamo andare avanti con meno di ottomila comuni per una popolazione totale di sessanta milioni. L'esistenza di un comune dovrebbe essere giustificata dalla sua autosufficienza, dalla capacità cioè di amministrare una popolazione che possa sopportare il costo dell'amministrazione comunale. Non si vede perché, infatti, a sopportarlo dovrebbero essere i residenti di altri comuni. A occhio e croce, direi che duemila comuni sarebbero più che sufficienti: la popolazione comunale media passerebbe da 7.500 a 30.000 e il finanziamento autonomo diverrebbe la regola, non l'eccezione. Il bubbone maggiore, tuttavia, quello che è più urgente eliminare, sono le regioni: nessuna persona onesta può sostenere che l'esperimento regionale sia stato un successo. Lo dico a prescindere dagli episodi di malaffare. Le regioni, infatti, non possono essere considerate enti locali; la Lombardia ha quasi dieci milioni di abitanti, la Sicilia cinque, non sono dimensioni da ente locale ma da Stato autonomo. Sono troppo grandi perché il controllo dei cittadini sul loro operato possa essere efficace; d'altro canto ci sono anche regioni troppo piccole, come il Molise. Soprattutto, a cosa servono? L'ottanta per cento del loro bilancio è costituito da spesa sanitaria: è sensato avere un Presidente (o governatore), un governo e un parlamento, oltre a una vasta burocrazia regionale, per amministrare le spese della sanità? A me non sembra. Non basta: la famigerata riforma del Titolo V della Costituzione, fatta in fretta e furia a ridosso delle elezioni del 2001 dalle sinistre col deliberato scopo di sottrarre consensi alla Lega, ha accresciuto a dismisura la discrezionalità delle regioni in materia di spese, dato vita a una terza Camera (la Conferenza Stato - Regioni) e conferito alle stesse il potere di avere relazioni internazionali, giustificando così la nascita di una diplomazia regionale, con connessa rete di ambasciate regionali! Siamo alla follia. Si aboliscano, quindi, le regioni e le province, si riduca a duemila il numero dei comuni e si conferiscano a essi le competenze degli enti aboliti. Avremmo un periodo di aggiustamento durante il quale sarà necessario occuparsi del problema del personale in esubero degli enti aboliti ma, alla fine, avremo un sistema di governo locale efficiente, razionale e molto meno costoso dell'attuale.

martedì 25 settembre 2012

Il Maldestro

Sprecopoli dimostra l'inutilità delle Regioni: 

un partito riformista dovrebbe ri-cominciare 

da qui

23 Settembre 2012 La settimana di passione nel Pdl si è conclusa con la nobile proposta di mandare in galera i delinquenti, a spasso gli incapaci e fare emergere i meritevoli nel partito e nelle istituzioni. Naturalmente, con queste premesse, non ci si poteva attendere altro che il via libera al prosieguo dell’esperienza della Regione Lazio. Dopo tanto tuonare, insomma, non piovve. Ma non uscì neanche il sole, si potrebbe dire. Questa la sintesi.
La realtà che resta sotto i nostri occhi, non guardando soltanto al letame che viene spalato alla Pisana, è quella di un Paese corrotto, infettato nelle sue istituzioni, in preda a convulsioni incontenibili. Ovunque, soprattutto negli enti locali, si ruba con disinvoltura. Ed il ladrocinio è trasversale. Le Regioni traboccano di lestofanti ed incapaci: sono il buco nero della Repubblica. Dovevano avvicinare i cittadini alla cosa pubblica: li hanno miserabilmente ingannati ed allontanati. Lodevole l’iniziativa della presidente della Giunta regionale del Lazio di procedere a tagli drastici. Ma non facciamoci illusioni: non sono i provvedimenti adottati sotto l'onda di piena dell'indignazione popolare a migliorare gli organismi rappresentativi. Occorre la politica. E purtroppo non c'è. Latita. Si è nascosta. È emigrata altrove. Personaggetti in cerca d'autore riempiono il vuoto e così f
Dopo la Regione Lazio toccherà alla Campania? E prima gli scandali si sono addensati su Lombardia e Puglia. E prima ancora hanno lambito altri esponenti, sia pure di seconda fila, di altre istituzioni regionali. Fino a quando dovremo occuparci di questi incontrollabili centri di malaffare senza poter far nulla? Fino a quando li vedremo crescere e dilapidare ingenti risorse pubbliche che potrebbero essere impiegate diversamente e più proficuamente?
Negli ultimi dieci anni la spesa delle Regioni è cresciuta di ottantanove miliardi: l'equivalente di tre grandi manovre finanziarie di uno Stato come quello italiano. E, per di più, la gestione dei settori di cui sono titolari gli enti regionali hanno dato prova di inefficienza imperdonabile. Basta guardare la sanità: amministrata dai potentati locali, i quali nominano con disinvoltura direttori delle Asl e creano primari utilizzando criteri esclusivamente politico-clientelari, è la peggiore d'Europa se non proprio in tutti i casi come qualità dei servizi erogati, certamente sotto il profilo gestionale e amministrativo: costa enormemente più che altrove del tutto ingiustificatamente.

Mi permisi su l'Occidentale, l'11 giugno scorso, di sollecitare una discussione minimamente decente sulla prospettiva di abolire Regioni. Naturalmente non si è mosso nessuno a parte qualche voce isolata che ogni tanto si coglie, ma non basta. Mi rendo conto che bisognerebbe scassare una parte significativa della Costituzione demolendo quella triste e folle riforma del Titolo V, ma se si vuol venire a capo del problema non c'è altra strada.
Del resto che le Regioni siano inutili, oltre che dannose, lo prova la storia stessa. Fino al 1970 qualcuno ne sentiva forse la mancanza? Con la loro istituzione la spesa pubblica è andata fuori controllo, alimentando un sistema di corruzione tra i più macroscopici dell'emisfero occidentale. Ecco perché non bastano i pannicelli caldi. Le pur ottime intenzioni della Polverini e di tanti altri che vogliono eliminare gli sprechi non basteranno a risolvere il problema. Le Regioni non sono il cancro da estirpare, sono le metastasi del sistema politico. O si interviene alla radice o l'Italia è condannata a farei conti, anno dopo anno, con un immiserimento che trae origine dalla dilatazione delle burocrazie politico-affaristiche che hanno fatto il loro nido caldo proprio nel cuore delle Regioni. 

Bastano i Comuni come enti rappresentativi e limitatamente decisionali; forse, come ente intermedio si potrebbe pensare alle Province regionali, attraverso le quali la presenza dello Stato potrebbe farsi sentire e valere: non sarebbero più di cinquanta. Comunque anche la suddivisione del territorio nazionale in quattro o cinque grandi aree, da non scambiare per entità micro-nazionali (nulla a che vedere,insomma, con la Padania e fandonie simili), potrebbe agevolare la vicinanza dei cittadini allo Stato senza essere sudditi di strutture burocratiche elefantiache e costose.
Se soltanto un terzo delle risorse che oggi finiscono nel pozzo senza fondo delle Regioni venissero date ai Comuni, sono certo che l'Italia rifiorirebbe. Almeno nell'ambito di un'amministrazione locale controllabile e di una partecipazione della gente alla cosa pubblica.
La nostra tradizione storico-culturale del resto è comunale. Il resto, costruito artificiosamente, non per armonizzare interessi e bisogni, ma per istituire centri di corruzione partitocratica (come stiamo vedendo), è da cancellare perché non ci appartiene.
Lo scrivano, se ne hanno il coraggio, i partiti nelle loro agende in vista della campagna elettorale, che le Regioni non servono: guadagneranno la simpatia di tutti gli italiani, escluso chi lucra su di esse, e daranno un tocco di serietà al loro riformismo fin qui sempre meno credibile.


domenica 23 settembre 2012

Le Regioni come un bancomat
Moltiplicati garanti e commissioni
Una pletora di organismi di dubbia utilità, ma dai costi milionari


pierfrancesco.derobertis@quotidiano.net
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I RIMBORSI, i fondi facili, la Regione come bancomat. Ma c’è moltodi più. Nel Lazio, certo, e anche altrove. La Casta sa nascondersi bene.Sempre dalle parti delle assemblee,per esempio, dove, oltre al consiglio vero e proprio, ogni anno se ne vanno milioni di euro per quelli che in gergo vengono pomposamente chiamati «organi di garanzia istituzionale», che a ben
guardare garantiscono soprattutto chi ne fa parte. Gli garantiscono una rendita. Nel Lazio e, appunto, altrove. Alzi per esempio la mano chi ha mai letto in qualche cronaca le eroiche
gesta del «garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà», in pratica i carcerati,oppure del «garante dell’infanzia e dell’adolescenza». Il Lazio, tanto per restare in zona, per questi due organismi dai compiti oscuri e dagli atti ignoti, nel 2010 ha speso quasi mezzo milione di euro. Molto prodighi, c’era da giurarlo. Spende pure anche la Campania, che per i due organismi nel 2012 ha messo in conto di «fatturare» circa 220mila euro.UN PO’ TUTTE le Regioni non sfuggono alla dolce tentazione del poltronificio, olio indispensabile per far funzionare la macchina della politica locale. Prendiamo la Toscana, che si pone sempre a modello di gestione dal basso dei sui 32 milioni e spiccioli di costo del consiglio.Bene, la Toscana oltre agli immancabili Garanti per l’adolescenza e garante per i detenuti ha il «Collegio di garanzia statutaria», la
«Commissione pari opportunità»,la «Conferenza delle autonomie sociali », il «Comitato delle autonomie locali» (come hanno tutte le Regioni), il Difensore civico (anche in questo caso presente più o meno ovunque). Altre Regioni hanno il Consiglio d’Europa, molte la Consulta femminile. Le Regioni si difendono dall’accusa di sperpero spiegando che sono organismi
previsti dalla legge. Vero, salvo che quando poi la legge impone dei tagli loro rivendicano la propria autonomia, e salvo il fatto che ci sono Regioni, come il Friuli, che per manifesta inutilità di siffatti pletorici organismi li hanno aboliti. Il Difensore civico in Friuli è stato tolto nel 2008.
MA TORNIAMO al Lazio, ottimo esempio dello sperpero prodotto dal poltronificio regionale. Il Lazio, dicevamo, nel 2010 ha speso mezzo milione per i due «garanti».Ai quali si sommano 250mila euro per il «Comitato regionale dell’economia e del lavoro», una sorta di copia in scala del Cnel nazionale, sulla cui utilità molti hanno sollevato dubbi a cominciare da Tremonti
che nella finanziaria 2011 voleva abolirlo e non l’ha fatto solo per perché essendo in Costituzione
non poteva farlo (e si è limitato a tagliarne i componenti); 100mila euro per il Comitato delle autonomie locali, 100mila euro per la Consulta femminile, 50mila euro per il Comitato di garanzia statutaria. UN CARAVANSERRAGLIO, questo Corel (che, ricordiamo, esiste anche in altre Regioni, tipo il Veneto)formato da 60 membri che almeno sulla carta devono discutere
dell’economia della Regione. Per tutti i componenti, ovviamente, rimborsi e gettoni di presenza. Soldi gettati al vento, o meglio elargiti al solo scopo di ingraziarsi qualcuno. Anche perché in ogni consiglio esiste già una commissione economia, che segue gli stessi argomenti,può promuovere audizioni e fare le stesse cose. Idem per il Cal (presente ovunque), composto da 37 membri provenienti (anche qui, rimborsi e gettoni) da tutta la regione. Una gita di salute a Roma
non si nega a nessuno.

Manca il corag­gio civile e radicale di abolire le Regioni
Marcello Veneziani

Per colpire la casta e i costi esagerati del settore pubblico manca il corag­gio civile e radicale di abolire le Regioni. Lo scrivo da tempo. Sono la vergogna d’Italia, persino più del Parlamento (da dimezzare). Il marcio emerso ora è solo la cresta, il costo vero è il raddoppio di tut­to: ci permettiamo il lusso di mantenere un doppio Stato, uno centrale e uno fede­rale.
Le Regioni costano l’ira di Dio, molti­plicano il ceto politico e il finanziamento pubblico ai partiti, dispongono di poteri esagerati, divorano risorse, duplicano la burocrazia statale. Anziché accanirsi con gli spiccioli delle Province, è lì che bi­sogna tagliare.
L’inizio del declino italiano,del suo in­debitamento e della crescita vertiginosa della partitocrazia, coincide con la nasci­ta delle Regioni, 1970. Se si vuol risanare il Paese, restituite sovranità e competen­ze allo Stato, anche in materia di sanità e pubblica istruzione, ripristinate il ruolo delle prefetture, magari adottando siste­mi selettivi più rigorosi istituendo una scuola superiore dei dirigenti ammini­strativi e prefettizi. Tra lo Stato e i Comuni basta un solo en­te intermedio: le Province regionali. Ce ne sono in Italia meno di una cinquanti­na e corrispondono alla storia e alla fisio­nomia del nostro territorio. Sostituireb­bero Province e Regioni con strutture più incisive e snelle, con compiti delimi­tati.
Una riforma necessaria, risparmiosa e ragionevole, perciò non si farà mai. Non sono in grado di farla né i partiti né i tecnici.
E allora chi? Chi? La domanda risuona nel vuoto.

sabato 8 settembre 2012


Il fuorionda di Giovanni Favia: "Nel Movimento 5 Stelle non esiste la democrazia, comanda Casaleggio"


Il giornale

Chi comanda veramente all'interno del Movimento 5 Stelle? E' questa la domanda che da molti mesi ci siamo posti. Alla fine la bomba è scoppiata. Sul Giornale avevamo già parlato, più di una volta, dei rapporti ambigui e chiacchierati tra il volto del Movimento,Beppe Grillo, e Gianroberto Casaleggio l'esperto di comunicazione su internet che, secondo molti, tiene realmente le redini della macchina politica e mediatica. Poca trasparenza, una gestione aziendalistica di un partito politico, ma soprattutto la grande contraddizione dei grillini: predicare l'iperdemocrazia e poi non rispettare internamente nemmeno le regole più elementari del gioco democratico.
Oggi la conferma arriva daGiovanni Favia, consigliere al comune di Bologna, ma soprattutto uno dei volti più conosciuti della galassia grillina. “Casaleggio prende per il culo tutti - ha detto Favia in un fuorionda trasmesso daPiazza Pulita su La7 - perché da noi la democrazia non esiste. Grillo è un istintivo, lo conosco bene, non sarebbe mai stato in grado di pianificare una cosa del genere. I politici, Bersani, non lo capiscono. Non hanno capito che dietro c’è una mente freddissima, molto acculturata e molto intelligente, che di organizzazione, di dinamiche umane, di politica se ne intende”.
E poi, ancora: "Quindi o si levano dai coglioni oppure il movimento gli esploderà in mano.
Ma loro stavano già andando in crisi con questo aumento di voti. Come si sono salvati? Con il divieto di andare in tv. Io con Santoro me la sono cavata, ma applicando un veto. Ho preso anche l’applauso, ma mi è anche costato dire quello che non pensavo".
Un terremoto politico che fa scricchiolare l'intera struttura del Movimento. L'intervsta risale a maggio e in quel momento, in cima al dibattito interno, c'era l'espulsione diValentino Tavolazzi, il consigliere modenese reo di aver prestato il fianco alla "fronda riminese", un gruppo di grillini che aveva iniziato a interrograsi sul reale ruolo di Casaleggio: "Lui (Beppe Grillo) espellendo Tavolazzi ha soffocato nella culla un dibattito che stava nascendo in rete in contrapposizione alla gestione Casaleggio. Ha sempre deciso Casaleggio da solo, ha sempre fatto cosi. Se Casaleggio non facesse il padre padrone io il simbolo glielo lascerei anche: adesso in rete non si può piu’ parlare, neanche organizzare incontri tipo quello di Rimini che non usavano il logo del movimento”.
Non è finita, poi arriva anche l'ultima bomba: "Tra gli eletti ci sono degli infiltrati di Casaleggio, quindi noi dobbiamo stare molto attenti quando parliamo. Casaleggio è spietato, è vendicativo. Adesso vediamo chi manda in Parlamento, perché io non ci credo alle votazioni on line, lui manda chi vuole".
E adesso? Le reazioni della base grillina sono state immediate. Il movimento a due velocità, che da una parte predica la partecipazione e dall'altra gestisce con piglio autoritario, viene percepita come una grande presa per il culo. E il riccioluto Casaleggio somiglia sempre di più alla luna nera del movimento, il burattinaio che tiene saldamente in mano i fili di tutta la macchina politica. Sul blog del nonpiùcomico sono già in molti a chiedere delucidazioni sulle parole di Favia e spesso in tono non proprio amichevole. Che cosa si inventerà questa volta il giullare che ha voluto farsi politico? Fino ad oggi la reazione alle critiche interne è stata solo una: purghe ed espulsioni. Favia mette già le mani avanti e su Fb, poco prima dell'inizio di Piazza Pulita, ha scritto: "Ho un brutto presentimento, stiamo a vedere". Poi, durante la trasmissione, a Enrico Mentanaavrebbe detto: "Sono finito". Nei regimi autoritari il dissenso non è tollerato.

martedì 4 settembre 2012


A Falconara, il PD si prepara nuovamente a perdere



Ce ne fossero di sindaci autocelebrativi come Brandoni. Persone del popolo che non sono abituate, come nei tempi andati, a rimanere rinchiusi dentro al castello, ma che all'occorrenza, se serve,
hanno l'umilta' di prendere una pala in mano ed andare a spalare la neve. 
Ce ne fossero stati di sindaci e amministrazioni a Falconara, presi ad esempio da giornali (il sole 24 ore) e radio nazionali (radio 24) come esempio di trasparenza, efficienza ed efficacia nella gestione dei bilanci. 
Ce ne fossero di persone che provano con nuove idee a rilanciare investimenti in raffineria, a differenza di chi, come il signor Federici, preferisce, fare il crociato contro qualsiasi investimento proposto dall'azienda (famose in raffineria le sue fantastiche riconversioni a barbabietole e patate).
 Venisse almeno il coordinatore del pd a manifestare con gli operai Api, lo aspettiamo da tempo a braccia aperte.
Oltretutto non si permetta piu' di parlare male dei consiglieri di maggioranza e pensi a casa sua, perche' Aprile arriva presto, e i Falconaresi gli regaleranno un'altra soddisfazione.
Il problema e' che tutto il Pd ha fiutato la nuova debacle, e comincia gia' a mostrare segni di nervosismo.
Comincia, come nel miglior stile piddino, la campagna politica fatta di bugie ed insulti piu' o meno velati. 
5 anni sono quasi passati e i Falconaresi hanno valutato.
Al sindaco Brandoni auguro di avere come sfidante il sig. Federici

sabato 1 settembre 2012


"Se l'Italia tornasse alla Lira rimpiageremmo la benzina a 2 euro"


L'occidentale

Carlo Stagnaro è un liberista, un economista della (ahinoi) sotto rappresentata schiera di liberisti italiani che dicendo da tempo che i livelli di spesa pubblica in Italia, ma più in generale in Europa, non erano mai stati sostenibili e che prima o poi avremmo pagato un caro prezzo. La crisi finanziaria e fiscale del debito sovrano è sotto i nostri occhi e purtroppo dà loro ragione.
Ingegnere, economista e responsabile dell’Area Energia dell’Istituto Bruno Leoni, Stagnaro ha le idee molto chiare su come portare l’Italia fuori dalla crisi. Con lui parliamo di Europa, dell’azione autunnale del governo Monti e delle difficoltà che vive il sistema produttivo italiano in questo ciclo recessivo.
Sul passaggio impervio che vive l’Euro, Stagnaro fa notare che l’onda anti-euro di certi politici, anche italiani, è un gioco allo scarica barile delle classi dirigenti nazionali che non intendono assumere la responsabilità dei propri errori passati. E a chi chiede un ritorno alla Lire italiana, Stagnaro dice: “No faccio dell’euro un feticcio, ma sarebbe un modo di monetizzare il debito, una specie di default mascherato”.
E’ notizia di ieri che François Hollande e Angela Merkel intendano riesumare il motore franco-tedesco per ridare slancio al processo d’integrazione europea e rassicurare i mercati sulla solidità dell’euro. Ma i malumori anti-euro crescono ovunque, anche in Germania. Crede che la crisi in atto sia di natura esiziale per il progetto della moneta unica oppure siamo in presenza di una dolorosa crisi di crescita? 
Non credo che la crisi sia necessariamente fatale per l'euro. Anzi, per certi versi la crisi è segno del fatto che l'euro funziona e costringe i paesi che vi aderiscono a rispettare una disciplina finanziaria che precedentemente era sconosciuta a molti di loro. Il malumore anti-euro è spesso figlio di una sorta di "blame game" dei politici europei, che scaricano sulla moneta unica la colpa di un fallimento che invece è tutto delle nostre classe dirigenti: l'incapacità di garantire nei rispettivi paesi un pareggio strutturale di bilancio e la tendenza ad alimentare una spesa pubblica incontrollata, finanziata in buona parte a debito.
Anche in Italia vi sono noti esponenti politici – Antonio Martino, solo per citarne uno - che si sono dichiarati a favore di un ritorno alla Lira. Lei ritiene che sia percorribile un ritorno alla valuta nazionale italiana? Quali sarebbero i costi che dovremmo sostenere per percorrere questa via?
Non credo sia possibile ma soprattutto non credo sia utile, in questo momento. Non faccio dell'euro un feticcio ma bisogna essere pragmatici: anche al di là delle intenzioni di chi sostiene queste tesi, abbandonare l'euro vorrebbe dire abbracciare svalutare e, realisticamente, adottare una politica monetaria più lassista e funzionale agli interessi politici del governo pro tempore (cioè monetizzare il debito ovvero andare attraverso una forma di default mascherato). Questo per un paese come il nostro avrebbe costi enormi: pensiamo al costo del debito che schizzerebbe alle stelle, o al costo dei beni importati (il petrolio per esempio, che ci farebbe rimpiangere la benzina a 2euro).
La crisi del debito sovrano che ha funto da detonatore alla recessione in corso ha mostrato che in Europa v’è un significativo problema di mole di spesa pubblica, spesso inutile, inefficiente e dannosa, soprattutto quando un alto livello di pressione fiscale s’incrocia con un ciclo economico recessivo come quello in corso in molte zone dell’area euro. Secondo lei la crisi in corso ridarà vita alla cultura liberale classica del “meno Stato, meno tasse”? Se ciò non avverrà, cosa ci dobbiamo aspettare in futuro?
L'Europa per uscire dalla crisi ha un'unica strada, cioè ridurre la spesa pubblica. In questa fase non è tanto una questione di cultura quanto una questione di necessità. Le conseguenze dell'operazione dipendono molto da quanto e come si taglia, ma che si debba farlo almeno un po' è, credo, indiscutibile e chiaro a tutti (inclusi quelli che opportunisticamente vi si oppongono). Sarebbe utile che questo intervento necessario fosse metabolizzato culturalmente, ma non è affatto detto e se accadrà dipende molto dalla maturità del dibattito politico nei vari paesi.
Si parla molto in Italia delle misure che il governo Monti metterà in campo il prossimo Autunno per il rush finale prima delle elezioni del 2013. Come noto saranno implementate delle liberalizzazioni nel settore postale, culturale e sanitario e nuovi investimenti in infrastrutture. Inoltre si parla anche di alleggerimenti fiscali per famiglie e di qualche efficientizzazione su PA e giustizia. Ritiene che siano misure anti-cicliche sufficienti oppure si tratta di atti slogan?
Se si tratti di slogan o no lo sapremo quando vedremo i provvedimenti. Se saranno sufficientemente incisivi, queste misure possono seriamente contribuire a rilanciare lo sviluppo, sia in senso stretto, sia cambiando la percezione dell'Italia e rendendoci un paese che il resto del mondo vede come potenziale teatro di crescita. Tuttavia, in nessun modo tali misure sono sostitutive di un intervento serio sulla spesa (tagli) e sul debito (attraverso le privatizzazioni).
Parliamo un po’ d’impresa. Il sistema produttivo italiano vive una fase difficilissima. Oltre al nodo congiunturale che determina una crescente difficoltà nell’accesso al credito, le aziende italiane hanno due problemi che vengono da lontano: in primis una cultura d’impresa e legislazioni del lavoro e tributarie che non permettono la crescita dimensionale delle imprese, fatto che le rende facile preda di M&A da parte di imprese estere (i noti ‘saldi italiani’); in secondo luogo v’è un ritardo nella creazione di efficienti cluster produttivi (impresa-università-infrastrutture-sicurezza) che fanno oggi la fortuna del sistema produttivo tedesco. Cosa deve (e non deve) fare la mano pubblica per favorire il superamento di queste criticità?
La mano pubblica deve ritirarsi e rattrappirsi. Molti dei nostri problemi, incluso il nanismo industriale, sono figli di una regolamentazione eccessiva e cattiva, che rende razionale non crescere oltre un certo livello. L'articolo 18 è parte di questo fenomeno ma non lo esaurisce. Pensiamo al ruolo dell'evasione: se il modello di business di molte imprese è basato anche sull'evasione, difficilmente esse possono crescere, perché crescendo diventano visibili e devono strutturarsi e ciò rende complicato mantenere una parte dei loro ricavi sommersa. Ma l'evasione è a sua volta conseguenza di un fisco troppo oneroso e troppo complicato. Lo stesso vale per lo scarso rispetto di molte norme e regolamenti: per essere davvero rispettati, dovrebbero anzitutto essere rispettabili...
Come noto la pressione fiscale effettiva italiana raggiunge in molti casi il 55%. Quale sarebbe secondo lei una via realistica d’abbattimento della pressione fiscale in Italia, tenuto conto dell’altissimo livello di debito pubblico italiano?
La riduzione della pressione fiscale deve essere preceduta da una più che proporzionale riduzione della spesa pubblica. Deve inoltre andare di pari passo a una semplificazione del sistema, con la drastica riduzione delle eccezioni (deduzioni e detrazioni) che consentirebbe un intervento ancora più forte sulle aliquote delle varie imposte.
Un’ultima domanda sul nodo infrastrutturale. Uno degli aspetti limitanti dell’Europa mediterranea rispetto all’Europa del Nord è il ritardo infrastrutturale (porti, ponti, autostrade, canali navigabili). Non pensa che le nazioni mediterranee in difficoltà – Italia, Spagna, Portogallo e Grecia – dovrebbero dare vita a un comune sforzo infrastrutturale per rilanciare lo sviluppo economico? Puzza un po’ di proposta keynesiana ma nuove infrastrutture non arrecano mai danno, ne converrà?
Le infrastrutture non servono in assoluto: servono quando sono utili. Generalmente, lo Stato finanzia cattedrali nel deserto. L'Italia dovrebbe lasciare ai privati il compito di investire in infrastrutture, scegliendo quali siano prioritarie, e concentrarsi sull'infrastruttura più importante: creare un quadro giuridico stabile e favorevole agli investimento.