lunedì 25 maggio 2009

Il paradosso del nuovo Fini
Il presidente della Camera Gianfranco Fini sta vivendo la fase forse più paradossale della sua carriera politica. Nel corso del tempo egli è andato sviluppando idee, sicuramente frutto di una sincera, e forse anche sofferta, maturazione personale, che oggi lo portano a differenziarsi, talvolta anche aspramente, su molti temi, dal governo e dalla maggioranza di cui fa parte. Si tratti dei modi per contrastare l’immigrazione clandestina, della questione della laicità e dei rapporti fra Stato e Chiesa, del caso Englaro o del ruolo del Parlamento, le prese di distanza di Fini dal governo ormai non si contano. Così facendo Fini ha finito per trovarsi nella curiosa situazione di essere applaudito soprattutto da quella parte del Paese che, riconoscendosi nell’opposizione, non lo voterebbe mai. Fini è un politico navigato e dunque è lecito chiedersi (anche se è difficile rispondersi): a quali elettori si rivolge, quale parte del Paese aspira a rappresentare?

La «buona politica» è, e sempre deve essere, una ben dosata combinazione di convinzione e di convenienza. Una politica senza convinzione e tutta convenienza è una politica opportunistica: è l’acqua in cui sguazzano i piccoli politici, i trasformisti di professione. Ma nemmeno una politica fatta solo di convinzione è una buona politica. Essa facilmente si riduce a testimonianza morale, a predica inutile. Il buon politico deve essere un uomo di convinzioni, comunque maturate, ma anche dotato di quel forte istinto del potere che gli permetta di costruirsi una strategia in grado di mobilitare consensi, appoggi, voti. Nel caso di Fini si individua la convinzione ma non si capisce quale sia la convenienza.

Le idee che oggi Fini difende sono certamente frutto di una lunga maturazione. Ad esempio, risale ormai a diversi anni fa la sua proposta (che fece infuriare il partito di cui era allora il leader, Alleanza nazionale) di concedere il voto agli immigrati. Ciò nonostante, appare assai grande la distanza fra il Fini che oggi manifesta le sue perplessità sui «respingimenti » e il Fini che ieri tuonava contro il governo Prodi, colpevole a suo giudizio di debolezza nella lotta contro l’immigrazione clandestina. La sua stessa difesa, contro l’irruenza del premier, del ruolo e delle prerogative del Parlamento, sembra qualcosa di più di una semplice difesa d’ufficio da parte del presidente della Camera. Sembra anche una forte presa di distanza dalle posizioni presidenzialiste (come tali, in Italia, sempre innervate di un certo antiparlamentarismo) che lo stesso Fini sosteneva fino a poco tempo addietro.

Si potrebbe anche guardare con simpatia, e con una certa ammirazione, un leader politico che ha avuto il coraggio di rimettersi in gioco e di rivedere criticamente tante sue posizioni precedenti. Ma resta la domanda: a quale strategia si lega questa evoluzione? Esistono nel Paese tanti potenziali elettori di centrodestra disposti a seguire Fini (contro Berlusconi e contro Bossi), attratti dalle sue idee su ciò che dovrebbe essere una destra moderna? Se quei tanti elettori ci sono, Fini avrà avuto ragione e la sua risulterà una «buona politica » (una giusta combinazione di convinzione e convenienza). Ma se non ci sono, allora anche i convinti applausi che egli oggi riceve dai giornali d’opposizione non gli serviranno a nulla. Poiché politica e testimonianza morale sono incompatibili.



Da L'Occidentale

1 commento:

Anonimo ha detto...

Boh chi ha capito cosa ha in testa Fini?
Io no