domenica 31 luglio 2011


La sinistra antiberlusconiana, la democrazia e il grande tradimento








Da L'Occidentale



A dispetto dei decenni passati in attesa di un cambiamento radicale della società italiana, la cultura di sinistra non ha saputo cogliere una delle più importanti occasioni di trasformazione che si siano verificate in Italia dopo la Seconda Guerra Mondiale. La fine della Guerra Fredda, nel 1989, ha in effetti provocato un risultato del tutto inatteso: la liberazione di quelle forze popolari, borghesi e produttive che, imprigionate dall’urgenza di fare fronte contro la minaccia comunista, avevano accettato per decenni un ordinamento costituzionale, economico, politico e sociale a loro del tutto estraneo e sgradito. Dopo un periodo burrascoso e tragico come quello di Tangentopoli, l’avvento del berlusconismo nel 1994 è stato il mezzo tramite il quale l’Italia profonda, quella che la sinistra istituzionale e culturale non aveva mai saputo interpretare, ha avuto finalmente l’occasione di darsi un volto. Oggi, mentre la fine del ciclo iniziato nel 1994 è ormai all’orizzonte, è facile rendersi conto di quanto poco la cultura ufficiale abbia saputo comprendere quel che è accaduto negli ultimi vent’anni; e quanto maldestra sia stata la sua risposta alla vicenda berlusconiana e a quel che in essa si è espresso. Lungi dal comprendere i fenomeni in atto, la cultura dominante si è piegata alle ragioni della critica militante dell’avversario politico, venendo meno al suo compito fondamentale in una società libera.


Questo atteggiamento si incarna nella figura ormai arcinota del professore universitario impegnato nella redazione di volumi apparentemente neutrali, ma dietro ai quali, come uno spettro shakespeariano, aleggia il volto monotono, ossessivo, di un solo Nemico da abbattere, esecrare o esorcizzare. Quel che però il chierico militante combatte nella figura del berlusconismo non è un uomo, come si potrebbe credere a prima vista, ma è l’idea di fondo di una democrazia diversa rispetto a quella sancita nella costituzione del 1948. Per questa ragione nelle ossessioni e nelle mode degli intellettuali organici si riconosce un istinto regressivo: quello di fermare il corso del tempo e impedire ad una parte del paese di collaborare a pieno titolo al dibattito pubblico, proponendo una riforma strutturale della società che si indirizzi più verso il valore della libertà e meno verso quello della democrazia. Tutti i dossier intorno ai quali, nei due grandi cicli di governo berlusconiano, si è articolato il dibattito pubblico – dalla questione delle intercettazioni a quella della carcerazione preventiva, per citare due esempi – sono in fondo dei territori di battaglia tra democratismo e liberalismo, due categorie politiche che non sono per nulla morte e sepolte. Su tutti questi dossier i chierici militanti della sinistra hanno impedito un dibattito pacato intorno a un nuovo equilibrio di valori politici, tacciando qualsiasi ipotesi di trasformazione come una deriva autoritaria e populista.


Il numero di Paradoxa curato da Dino Cofrancesco è un tentativo serrato, puntuale, colto, di mettere i chierici della sinistra italiana di fronte alle loro responsabilità: rivelare i presupposti storici delle loro critiche alla recente evoluzione del sistema politico e svelare la pochezza asfissiante del loro orizzonte. L’impresa è ovviamente coraggiosa, visto che, tra questi chierici militanti in servizio permanente effettivo, vi sono delle firme di assoluto prestigio della pubblicistica contemporanea e dei maestri della cultura italiana. Il fascicolo di Paradoxa mette tuttavia in chiara evidenza tutti i limiti della strategia ossessiva di riduzione del berlusconismo a semplice fenomeno di populismo. Invece di leggere la profondità degli eventi in corso, l’intellettuale di sinistra ha preferito rinchiudersi nella certezza di un ordinamento considerato come la perfezione immutabile. La difesa ad oltranza della costituzione del 1948, intorno alla quale si sono più volte serrate le fila della sinistra culturale, ha fornito un esempio tipico di questo sbarramento ideologico verso qualsiasi mutazione degli equilibri valoriali della nostra società e ha manifestato un’avversione strutturale verso l’irrompere nel dibattito pubblico del tema della libertà. A dispetto di questo atteggiamento miope e per certi versi del tutto contrario all’etica elementare di un uomo di cultura, il paese ha continuato lungo la sua strada, riservando per quindici anni le sue dure repliche elettorali alla prosopopea dei cattedratici dell’antiberlusconismo.


Lo stordimento che le elezioni del 1994, del 2001 e del 2008 hanno riservato alla cultura di sinistra è una cifra dello spaesamento di fondo dei suoi maestri. Chiusi nel loro orizzonte autoreferenziale, pronti a tacciare ogni alternativa come un’eresia politica e culturale, i chierici militanti hanno forse paralizzato il loro avversario e rafforzato i loro privilegi di casta, ma di certo non hanno contribuito al progresso del paese. Invece di impegnarsi ad interpretare il paese vero, offrendo gli strumenti per un progressismo riformista concreto ai propri uomini politici, la gran parte degli intellettuali di sinistra si è impegnata in un rifiuto metodico di tutte le ragioni della parte maggioritaria del paese. Dietro questa coazione al rifiuto dell’Italia profonda si staglia un baratro ancora più grande: la mancata comprensione della storia più generale della cultura italiana nell’epoca contemporanea, la tendenza a leggerne l’evoluzione in modo ideologico e sempre armato di categorie bellicose: dal Risorgimento alla Prima guerra mondiale, dall’avvento del fascismo alla Liberazione, dalla nascita e affermazione della DC al terrorismo, per finire con il decennio craxiano. Dietro l’incomprensione dell’ultimo quindicennio sta quindi un’abissale, preoccupante, tendenza ad ignorare la complessità e la ricchezza di una storia nazionale che non si riduce allo schema infantile della lotta dei buoni contro i cattivi. Una strategia certo efficace per rassicurare le classi dirigenti e confermare la loro egemonia, ma incapace di indirizzare uno sviluppo e delle riforme.


Se la parte critica del fascicolo di Paradoxa è quella, per così dire, più gustosa, la parte costruttiva, positiva, non è meno interessante. Nel momento in cui ci si chiede quale sia l’altra idea dell’Italia che è emersa a partire dal 1994, diviene subito chiaro quanto essa sia lontana dal sistema nato nel 1948. Nessuno può negare alla Costituzione del 1948 il merito di avere garantito al paese stabilità, prosperità, diritti e libertà in un contesto difficile. Ma una parte consistente d’Italia non si riconosceva nelle formule del compromesso costituzionale, sentendosi sempre come estranea a quel sistema politico e a quella cultura di fondo. Nel 1989, tuttavia, l’equilibrio tra libertà e democrazia sintetizzato dalla vecchia Costituzione repubblicana è definitivamente saltato. Nel corso degli anni Ottanta la società italiana era profondamente mutata e aveva già manifestato l’esigenza di una riforma di quelle strutture di base di cui l’equilibrio costituzionale post-bellico era il simbolo. La ragione è semplice: la Costituzione del 1948 era nata da un compromesso a tutto vantaggio della democrazia e a tutto svantaggio della libertà. L’affermazione non deve scandalizzare: democrazia e libertà sono due valori politici distinti, che possono convivere, ma che non possono mai esaurirsi l’uno nell’altro. Le democrazie liberali moderne sono dei tentativi di sintesi, sempre imperfetti e sempre parziali, tra questi due valori distinti. Il 1994 è stato l’anno in cui il tema della libertà è venuto alla ribalta, chiedendo una nuova trasformazione degli equilibri sociali, politici, culturali, costituzionali ed economici.

Quel che il numero di Paradoxa definisce un conflitto tra idee di democrazia, è in effetti un conflitto tra una democrazia della partecipazione, a tendenza sociale, ed una democrazia della libertà, a tendenza individualista. Così si svela l’arcano, incomprensibile per i chierici della sinistra: la battaglia che si combatte dal 1994 ad oggi non è quella tra la democrazia e la barbarie, ma semplicemente tra due modelli differenti di organizzazione politica democratica. Quel che i professori militanti non riescono ad ammettere è che ci sia in questo paese una sete di democrazia diversa, fondata sulla libertà, e quindi alternativa rispetto a quella difesa e protetta nei loro templi sacri. Per questo si sono eretti a difensori ierocratici e profetici della democrazia del 1948 e della sua stilizzazione mitologica, condannando tutti gli altri – anche quando si tratta della maggioranza laboriosa e silenziosa del paese – all’inferno del populismo, della demagogia e dell’inciviltà. Ma, a dispetto delle loro illusioni e delle loro rassicuranti condanne, il paese continua ad avere sete di libertà e di un riformismo ispirato ad una nuova idea di democrazia. L’ultimo numero di Paradoxa propone dei contributi, delle strade, delle possibilità per questa tanto agognata democrazia devota alla libertà: non è cosa da poco, in un tempo tanto triste e tanto confuso.






1 commento:

Anonimo ha detto...

Articolo interessante.