martedì 13 novembre 2012


Da "Il legno storto"

 Macelleria fiscale

Il governo ha completamente perso il controllo della legge di stabilità, conservando a sé l’arma della vendetta contabile. Non si tratta di riconoscere il ruolo del Parlamento, come qualche ministro graziosamente fece, al momento della presentazione, perché quello è scolpito nella Costituzione (questa sconosciuta). Si tratta, semmai, di stabilire se il governo ha una qualche politica che non sia il mero ricondursi al rispetto dei saldi, perché in questo caso, come sta avvenendo, l’interlocutore del Parlamento diviene la Ragioneria generale dello Stato. E buona notte alla funzione governativa. 
La cosa singolare è che nel mentre i (presunti) protagonisti della politica si dividono fra chi vorrebbe governare in proprio (salvo non dire come e per far cosa) e chi vorrebbe lasciare le cose in mano a Mario Monti, pur riconoscendoti quasi tutti nell’“agenda Monti”, proprio quest’ultima si svuota al punto da consentire che la legge di stabilità venga stravolta e capovolta, nell’indifferenza collettiva. Dagli sgravi fiscali agli orari scolastici agli esodati, non c’è materia rilevante in cui il governo abbia tenuto ferme le proprie posizioni. Sarebbe questo il ragguardevole costume cui ispirare il futuro? E, si badi, questa non è una critica al governo, perché la sua “colpa” è quella di durare troppo, ben oltre il pronto soccorso che si rese necessario un anno addietro, quindi di scomporsi per il venire meno della missione iniziale, mentre restano intatti i problemi di fondo. La critica è rivolta alle forze politiche maggiori, incapaci di capire quel che era evidentissimo nel novembre scorso e che fin da allora scrivemmo: tocca loro cambiare il sistema elettorale e condurre l’Italia al voto. In fretta. Invece sono ferme, ripiegate nelle loro miserie interne, nel mentre s’approssima la fine naturale, e ingloriosa, della legislatura.
La critica che muovo al governo è altra: assistendo all’implosione della politica, incapace di riforme profonde (l’unica, quella delle pensioni, si trascina dietro un imperdonabile errore tecnico, che ha generato gli esodati), il governo si abbandona alla vendetta contabile, accanendosi nel far crescere le entrate nel mentre non riesce a tagliare significativamente le uscite. Per evitare si dica che fa “macelleria sociale” si abbandona alla “macelleria fiscale”. Senza neanche evitare la prima, oltre tutto, ma praticandola nella sua versione più odiosa, ovvero con la “macelleria generazionale”.
Monti annette a sé e al suo governo la guerra (così l’ha chiamata), contro la corruzione e l’evasione fiscale. Guerre sante. Gliecché la storia ci consegna non pochi esempi di guerre benedette tradottesi in carneficine sadiche e senza tensione alcuna verso il sacro. Dire che la guerra contro la corruzione si conduce con la nuova legge, ancora in gestazione, non è propaganda, è fanfaroneria allo stato puro. Quella legge sarà approvata, statene certi, ma siate altrettanto sicuri che non servirà a nulla. Mentre la lotta all’evasione, nei fatti, si traduce nel far pagare più tasse a quelli che le pagavano, con effetti recessivi evidentissimi, talché la ripresa prevista per l’anno prossimo si sposta, come tempestivamente sottolineammo, in un imprecisato futuro.
E quando Monti dice che la ripresa ci sarà nel momento in cui cesserà la crisi dell’euro dice una di quelle cose utili a dimostrare che siamo senza timone e senza motori: stiamo andando a rimorchio. Solo che dal rimorchiatore hanno deciso di mettere le mani nella cambusa e portare via gli arredi, sicché, alla lunga, somigliano più a pirati che a salvatori.
La follia autodistruttiva del nostro dibattito politico sta proprio nel credere che questa sia una politica, semmai discutendo se continuarla a cura degli ideatori o a cura dei gestori partitanti. Invece questa è una non politica. E’ l’altra faccia di una medaglia che da una parte reca il ritratto di Beppe Grillo. E’ il frutto del crollo, non un modo per evitarlo. E se le forze politiche non vogliono suicidarsi devono imparare a fare in modo che cambino le cose, non il loro o il proprio nome. Giacché, com’è noto: ca tu ‘o chiamme Cicco o ‘Ntuono/ ca tu ‘o chiamme Peppe o Giro/ chillo ‘o fatto e niro niro,/ nino niro comm’a che. 

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