martedì 26 maggio 2009

La memoria corta del Pd





Una (discutibile) regola non scritta della politica è quella secondo cui in campagna elettorale tutto è permesso. Virulenti attacchi contra personam, intrusioni nella vita privata dei candidati, rivelazioni piccanti su questo o quell'aspirante parlamentare o sindaco, e via degradando... Ma ad essere violato, spesso, non è soltanto il sacro confine della privacy, ma anche e soprattutto l'altrettanto sacro confine della verità. Verità storica e verità politica. Prendiamo la campagna elettorale - se così si può definire - condotta dai dirigenti del Partito Democratico in vista della prossima consultazione del 6 e 7 giugno. Smaniosi di attaccare Berlusconi su tutto, finiscono non tanto col diventare ripetitivi, noiosi e prevedibili nelle loro quotidiane dichiarazioni, quanto col fare letteralmente a pezzi ciò che essi stessi hanno detto, scritto e solennemente ribadito fino a poco tempo fa.
Si consideri, ad esempio, il capitolo giustizia. Oggi che, con un timing perfetto, la procura milanese ha reso note le motivazioni della sentenza Mills, dalle parti del Pd è tutto un mulinare di parole contro il presidente del Consiglio e in difesa dei magistrati a 360 gradi. Ma come dimenticare che fino a pochi mesi fa, quando ad essere nel mirino dei pm erano presidenti di Regione, sindaci e amministratori locali democrats, improvvisamente dai vertici del partito giunsero non soltanto aperte critiche all'operato delle toghe, ma anche la disponibilità a discutere, senza il paraocchi del solito antiberlusconismo forcaiolo, di riforma della giustizia. Insomma: quando i magistrati colpiscono il nemico, viva i magistrati; quando i magistrati colpiscono l'amico, abbasso i magistrati. Memoria corta e la vecchia, cara doppiezza di comunista memoria.
Ma il culmine della smemoratezza i capi del Partito Democratico lo hanno raggiunto giovedì, dopo le dichiarazioni del premier all'assemblea di Confindustria in merito alla riduzione del numero dei parlamentari e alla necessità di snellire le procedure decisionali e di dotare di maggiori poteri l'esecutivo. Cose che Berlusconi ha già detto e ridetto molte volte, in questi ultimi mesi. Ma oggi, nel pieno della campagna elettorale, è diverso: bisogna raccogliere qualche voto in più, e per farlo è necessario distorcere e drammatizzare ogni parola che esce dalla bocca del presidente del Consiglio. Così si può dire agli italiani, come ha fatto ieri Franceschini, che quello del 6 e 7 giugno «è anche un voto per la democrazia», cioè per difendere la democrazia dalla minaccia rappresentata dalla volontà del Cavaliere di sfoltire il numero di deputati e senatori e dare più forza al governo. Così, ancora, si può inviare una missiva ai capigruppo di Idv e Udc per una risposta comune di fronte alla «reiterata manifestazione di ostilità e disprezzo verso le prerogative del parlamento» da parte del premier.
Democrazia in pericolo, dunque. Ostilità e disprezzo per il parlamento. Peccato soltanto che le stesse proposte avanzate da Berlusconi facciano capolino non nello statuto di qualche neonato partito fascista, bensì nel programma elettorale del Partito Democratico, anno 2008. Punto 11, dedicato alla «democrazia governante»: «La democrazia governante richiede anzitutto il pieno esercizio della sovranità popolare. E' inaccettabile ritenere gli elettori italiani, solo sul piano nazionale, dei minorenni incapaci di scelte chiare e dirette. Per questo appare necessaria la scelta diretta di soli 470 deputati... Il Senato rinnovato di 100 membri scelti dalle autonomie regionali e locali è la sede della collaborazione tra lo Stato e tali autonomie». E ancora: «Quanto alla forma di governo, si tratta di verificare quale tra i modelli delle grandi democrazie contemporanee possa incontrare il maggiore consenso. In ogni caso, qualora si convenisse di muoversi nel solco dell'attuale assetto parlamentare, il presidente del Consiglio, nominato dal capo dello Stato sulla base dei risultati della Camera, dovrebbe ricevere da solo la fiducia esclusivamente dalla Camera, dovrebbe poter richiedere al capo dello Stato la revoca dei ministri; e i disegni di legge approvati dal governo dovrebbero essere votati entro una data certa, comunque non oltre due mesi». Per non dire che la famosa «bozza Violante», così cara al Pd, assegnava al premier anche il potere di nomina e revoca dei ministri.
E' chiaro che se le proposte di riforma istituzionale di Berlusconi sono, come sembrano lasciar intendere i dirigenti del Partito Democratico in questi giorni, l'anticamera del ritorno del fascismo nel nostro paese, allora una bella camicia nera va assegnata anche a chi proposte simili le ha messe nere su bianco nel suo programma elettorale e le ha più volte ribadite fino all'altro ieri. La verità è che il Pd sa che quelle dette dal presidente del Consiglio sono cose di buon senso, necessarie al buon funzionamento dello Stato. Il problema è che, in mancanza di argomenti e progetti alternativi, ad urne «calde» e a sondaggi «freddi» può fare cilecca anche la memoria. Quella dei dirigenti del Pd, non quella degli italiani.

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