giovedì 15 ottobre 2009

Presunte mazzette

Afghanistan, gli Italiani aiutano i civili e il Times li accusa di pagare i Taliban

Afghanistan, 4 agosto 2008: i francesi assumono la responsabilità dell’area di Surobi, circa 50 chilometri a est di Kabul. Il 4° reggimento Alpini paracadutisti e i Paracadutisti del 185° RRAO (Reggimento Ricognizione Acquisizione Obiettivi), che compongono la cosiddetta Task Force Surobi, lasciano l’area. Passano giusto una decina di giorni e i militari francesi cadono vittime di un’imboscata nella valle di Uzbeen. Il bilancio è durissimo: 10 morti e 21 feriti. Un massacro particolarmente efferato: le cronache riportano di decapitazioni, addirittura quando i francesi sono ancora vivi, e scempi di cadaveri per mano degli stessi talebani che hanno sferrato il pesante attacco.

Passa ancora qualche giorno e i francesi incolpano gli italiani: gli alpini e i paracadutisti, che fino a poco tempo prima avevano presidiato la zona, si erano, secondo i vertici francesi, asserragliati dentro le Fob, le basi operative avanzate, dopo la morte del primo maresciallo Giovanni Pezzulo, avvenuta a febbraio 2008. Gli italiani avrebbero quindi abdicato alla missione di controllo della delicatissima area, “infestata” non solo da gruppi talebani, ma soprattutto dalle milizie dello spietato Gulbuddin Hekmatyar, signore della guerra locale, ex mujaheddin e storico alleato dei talebani.

Oggi, un’altra accusa agli italiani: secondo il quotidiano britannico Times, gli 007 italiani avrebbero pagato mazzette ai talebani in cambio di sicurezza e tranquillità. Non avvertiti del meccanismo in atto da mesi, i francesi, una volta spezzato il “circolo vizioso”, sarebbero stati “puniti” dai talebani della zona. Palazzo Chigi risponde con un comunicato ufficiale, smentendo i pagamenti e ricordando anzi che gli italiani, nel periodo di permanenza nel distretto di Surobi, hanno subito numerosi attacchi. E rilancia promettendo querela. Ora, sarà pure umanamente comprensibile che si vada alla ricerca di un capro espiatorio per una strage così efferata. Tutto ha un limite, però. Tante, infatti, le cose che non sono state dette. E tante quelle travisate.

Il cosiddetto “distretto di Surobi” comprende quattro valli: Maypar, Tezeen, Jegdalek e Uzbeen. Quest’ultima è sempre stata la più “delicata”. A dicembre 2007 i militari turchi lasciano l’area e gli italiani assumono la responsabilità della zona e delle Fob presenti lì. E subito iniziano ad applicare quella che è, ed è sempre stata, la loro strategia: cercare l’appoggio della popolazione. Cominciano con l’individuazione dei malek, i capivillaggio, gli unici, per questioni rigidamente gerarchiche, titolati a trattare con lo “straniero”.

I rapporti più saldi si stabiliscono con il malek della valle di Jegdalek. È un vecchio mujaheddin: i turchi gli hanno promesso che i militari italiani, pieni di soldi, avrebbero esaudito ogni suo desiderio. Il malek, quindi, si presenta con un sorta di “lista della spesa”: chiede scuole, ponti, strade, pozzi, infrastrutture. Gli italiani, che come modus operandi non prendono mai un impegno nei confronti della popolazione se non sono sicuri di poterlo mantenere, decidono di dire la verità: non hanno tutti quei soldi a disposizione, ma faranno il possibile. Il malek, vecchio mujaheddin, resta impressionato dalla sincerità degli italiani e da lì inizia un proficuo rapporto di stima e fiducia reciproca. Che, pare, duri ancora oggi, anche a distanza di un anno dalla partenza degli italiani.

Anche nella valli di Maypar e Tezeen i militari riescono, dopo un lungo e certosino lavoro di graduale “avvicinamento” a stabilire rapporti di salda collaborazione. Solo la valle di Uzbeen resta un po’ più “ostica”. Ma non inaccessibile. Gli italiani, quindi, iniziano a spingersi fin nei villaggi più remoti dell’area. In alcuni di questi gli abitanti non hanno mai visto un militare della coalizione Isaf e capita che li scambino per russi. Il territorio è aspro e inospitale e, quando la neve rende impossibile il passaggio dei mezzi, si percorrono chilometri per portare, a dorso di mulo, aiuti umanitari alle famiglie più povere, assistenza sanitaria e veterinaria.

A volte sono gli stessi malek che si fanno portavoce delle esigenze più urgenti: casi di malattia o di famiglie particolarmente povere a cui dare la precedenza assoluta nella distribuzione degli aiuti.
E comunque, la cellula Cimic (la Cooperazione civile e militare, quella che si occupa della ricostruzione e sviluppo) lavora. Bilancio: nei mesi di permanenza gli italiani costruiscono una biblioteca, una clinica, il locale distretto di polizia, un ponte pedonale sospeso di 70 metri , tre ponti pedonali e trenta pozzi d’acqua potabile, tre scuole, due cliniche veterinarie, una stazione di polizia, un ponte pedonale e ventisei pozzi d’acqua potabile.

In cambio la popolazione segnala, sempre più spesso, depositi illegali di armi (ne vengono smantellati più di cento in quei mesi) e fornisce indicazioni preziose sulla preparazione di imboscate e attacchi Ied, gli ordigni artigianali improvvisati posti al bordo delle strade. Mesi che, tuttavia, non sono proprio “tranquilli” per i militari italiani. Numerosi, infatti, gli scontri a fuoco in cui sono coinvolti. E in uno di questi, il 13 febbraio 2008, viene ucciso il primo maresciallo Giovanni Pezzulo, della cellula Cimic.

A inizio agosto, dunque, gli italiani lasciano il distretto di Surobi ai francesi, che vengono accuratamente avvertiti dei “warning”, le indicazioni di rischio, durante il normale periodo di affiancamento che il comandante che sta per assumere la responsabilità fa con quello che la sta per lasciare. Vengono anche avvertiti del fatto la valle di Uzbeen è delicata e che, all’interno della valle, non c’è copertura radio. Almeno con gli apparati usati comunemente.

I francesi si insediano e la situazione cambia. Gli afghani del posto, che finora hanno avuto un ottimo rapporto di collaborazione con i militari Isaf, sperano di mantenerlo. Ma quando si presentano alla base per chiedere che vengano mantenute le abitudini prese con gli italiani (assistenza sanitaria e veterinaria, donazioni di aiuti) si vedono sbattere le porte in faccia. I francesi, che si sono presentati con assetti pesanti e iniziano a fare rastrellamenti, non hanno intenzione, evidentemente, di mantenere i rapporti “di buon vicinato” con gli abitanti del posto.

Infine, prendono un po’ sottogamba le indicazioni che gli sono state date dagli italiani: si avventurano con le loro radio, senza copertura aerea e con poche munizioni, nella valle di Uzbeen. Entrano attraverso l’unica via d’accesso alla valle, stretta e circondata di montagne, quindi particolarmente adatta alle imboscate, e lì la tragedia. Non riescono a comunicare via radio e chiedere rinforzi, non possono richiedere la copertura aerea e terminano le munizioni. I talebani che li hanno attaccati sono liberissimi di farne scempio.

Insomma, i soldi che gli italiani hanno speso nell’area sono stati sicuramente quelli investiti dal Cimic per la ricostruzione di infrastrutture. Se fossero bastate delle mazzette ai capi talebani per garantire la pacificazione, perché spingersi fin laggiù subendo attacchi e perdite di vite umane? E comunque, ogni volta (ed è capitato molto spesso soprattutto negli ultimi tempi) che gli italiani intervengono per tirare fuori dalle grane militari di altri contingenti, evitano di fare troppa pubblicità per non “sminuire” i “colleghi”. Pare che il politically correct sia rimasto appannaggio di pochi ultimamente.


Carlotta Ricci (L'Occidentale)

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