lunedì 9 giugno 2014


                                             Leggendo qua e là


Urbino, cade dopo 68 anni la roccaforte rossa
Gambini è il nuovo sindaco, Sgarbi assessore

Il neo primo cittadino: «Hanno vinto la democrazia e la voglia di cambiamento


URBINO - Risultato storico all’ombra dei Torricini: Maurizio Gambini è il nuovo sindaco e per la prima volta dal dopoguerra cede la roccaforte rossa con la sconfitta del centrosinistra. Gambini ha sconfitta la candidata del centrosinistra Maria Clara Muci, a cui non è bastato l’apparentamento con la lista Demitri. Decisivo per il sorpasso e per la vittoria di Gambini, l’apparentamento con Francesca Crespini. 
Maurizio Gambini è raggiante in una via Mazzini invasa di persone festanti, con corteo, brindisi e la festa come una vittoria per la Nazionale: «Un risultato che va oltre le nostre aspettative. Questo vuol dire che non solo noi ma più di quattromila urbinati sono stanchi di questa amministrazione». Francesca Crespini, futuro assessore al turismo: «Sono contenta, la lista ha riportato tutti i voti, non ne persi per strada. Gli elettori hanno approvato questa scelta, ora rimbocchiamoci le maniche».
Vittorio Sgarbi a questo punto sarà il nuovo assessore alla cultura di Urbino. Sgarbi è arrivato nella notte a Urbino ed è rimasto in contatto telefonico, durante lo spoglio, con il Verde Giuseppe Canducci. «Non ci credevo fino alla fine, pensavo che la Muci potesse recuperare nel seggio di Gadana - ha spiegato il noto critico dimostrando di conoscere ormai la situazione seggio per seggio - E’ una giornata di liberazione, come quando cadde dopo il muro di Berlino, qui il muro è il Pd, caduto dopo 68 anni E’ la vittoria della democrazia contro un partito fascista». Entusiasta anche la consigliere regionale Elisabetta Foschi: «Sono molto contenta non solo per lo scarto più ampio del previsto, ma anche per la forza e la coesione della squadra che si è creata e che lavorerà benissimo».

RISULTATI FINALI  (Il Messaggero)

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Potenza Picena, Francesco Acquaroli è sindaco, Fratelli d'Italia entra in Comune, sinistra sfrattata dopo 20 anni


Lascerà il Consiglio regionale e al suo posto entrerà Ottavio Brini (Ncd) di Civitanova. Ha battuto il renziano Fausto Cavalieri. Borroni di Fb: vittoria con 1.400 voti di scarto

POTENZA PICENA - Il consigliere regionale di Fratelli d’Italia Francesco Acquaroli è il nuovo sindaco di Potenza Piocena. Il consulente finanziario di 39 anni ha battuto con 1.400 voti di scarto il democrat Fausto Cavalieri. Lo ha già annunciato su Facebook Pierpaolo Borroni: «Civitanova saluta il nuovo sindaco di Potenza Piocena Acquaroli con 1.400 voti di scarto e il 58%»

Nelle 11 sezioni scrutinate su 13, Acquaroli ha preso 3.579 (59,31%) contro i 2.455 voti di Cavalieri (40,69%).

Dopo aver staccato l’avversario di centrosinistra Fausto Cavalieri di 10 punti al primo turno Acquaroli vince il ballottaggio, che ha un significato storico per il quinto Comune del maceratese (per numero di abitanti). Potenza Picena arrivava infatti da 19 anni di amministrazione monocolore di centrosinistra. Le urne hanno detto che ora si volta pagina.

Il giovane esponente Fdi stupì tutti già nel 2010 entrando in Consiglio regionale con oltre 5mila voti. Ora arriva la vittoria alle comunali su Cavalieri, sostenuto dalle liste Pd e dalla civica Città Futura. Al candidato renziano non è stata sufficiente la campagna elettorale ventre a terra delle ultime 2 settimane. Acquaroli, sostenuto dalle liste Il Centro Destra e Centrodestra, ha potuto contare su un gruppo compatto di sostenitori soprattutto nella città alta. Potenza Picena vira decisamente a destra, considerando l’appartenenza politica del nuovo sindaco.

L'affluenza al voto al ballottaggio è stata del 53% contro il 62,3% del primo turno.

Acquaroli diventa primo cittadino di una città con oltre 15mila abitanti, carica incompatibile con quella di consigliere regionale. Le sue dimissioni dalla Regione faranno scattare un seggio per l’esperto politico civitanovese del Ncd Ottavio Brini, primo dei non eletti.
(Il Messaggero)




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Telefonini e sigarette: tutti i benefit dei clandestini

Gli ospiti dei 13 centri d’identificazione d’Italia costano 40 euro al giorno più gli extra.  

Ogni giorno un pacchetto di sigarette e una scheda telefonica da 5 euro. E poi scarpe, tuta, felpa, mutande, asciugamani, calzini, magliette, dentifricio, spazzolino, pettine, shampo e bagnoschiuma, lenzuola pulite ogni due giorni, per le federe un po’ di pazienza: tre giorni.

Sissignori, avete letto bene: sigarette e scheda telefonica. Perché si sa che i vizi, quelli, è difficile perderli. E allora, clandestini, benvenuti in uno dei 13 Cie (Centri per l’identificazione e l’espulsione, ndr) d’Italia, Paese di Bengodi che non lesina, quando si tratta d’accoglienza. Gli immigrati irregolari e gli extracomunitari "pizzicati" sul suolo italico senza uno straccio di documento valido per starci, né documenti per l’identificazione, costano allo Stato 40 euro al giorno, che per un mese fa 1200 euro, benefit esclusi: lo stipendio medio di un impiegato italiano. Quei centri che per qualcuno sono vere e proprie carceri, a guardar bene e facendo due conti costano allo Stato quanto dei residence.
Dal 2010 ad oggi, la sola prefettura di Roma, che tratta i casi di stranieri fermati in provincia, ha disposto l’accoglienza nei vari Cie della Penisola in seguito all’emissione di un decreto di espulsione, per più di 19 mila persone. Di queste ne sono stati rimpatriate appena 3.700. Ora una domanda: che fine hanno fatto i restanti 15.300 clandestini ospiti dei Cie? Presto detto. Una parte potrebbe aver richiesto e ottenuto lo status di rifugiato politico, oppure potrebbe aver lasciato il Cie per decorrenza dei termini dopo essersi appellato al primo rigetto della commissione. Sforare i 60 giorni (30 più altri 30 prorogabili dal Giudice di pace) entro cui l’Ufficio immigrazione deve reperire documenti validi per l’espatrio, è infatti la norma. Si può tornare così a scorrazzare per l’Italia con un ordine del Questore a lasciare il Paese entro 7 giorni, pena una denuncia al Giudice di pace e un’ammenda da 10 mila a 20 mila euro (Sic!). Reperire dai consolati dei Paesi di provenienza dei clandestini un titolo valido per il rimpatrio, non è solo una corsa contro il tempo, ma un braccio di ferro estenuante con i consolati stranieri che prima di riprendersi i propri concittadini ci pensano non due ma quattro volte. Per un’altra piccola parte degli stranieri ospitati nei Cie in attesa dell’identificazione potrebbero aprirsi invece le porte di un carcere italiano qualora si scoprisse che il soggetto ha precedenti penali. Ma non finisce qui. Per terminare il conto e capire che fine abbiano fatto le 15 mila e più persone rimaste nei Cie a nostre spese, bisogna provare ad immaginare il peggio. Di casi limite ce ne possono essere tanti. Uno per tutti, la fuga. Il miglior modo per darsela a gambe da un Cie è richiedere una visita medica. Il personale del Cie è costretto a inviare i soggetti in ospedale dove vengono affidati ai medici. Non trattandosi di persone in arresto, ma di ospiti, gli agenti di polizia non sono infatti tenuti a piantonarli. I medici, da parte loro, non sono tenuti a trattenerli con la forza. Ecco che la fuga dall’ospedale diventa, per chi vuole evitare il rimpatrio in estremis, un gioco da ragazzi.
Ipotizzando una permanenza media di 60 giorni nel Cie (il tempo massimo stabilito dalla legge è di 180 giorni, 5 mesi, ndr) e un costo mensile di 1600 euro, cifra tonda pasti inclusi, i clandestini trattati dalla sola Prefettura romana ci sono costati, dal 2010 ad oggi, quasi 5 milioni di euro, più di un milione l’anno. Nel solo Cie romano di Ponte Galeria, attualmente sono ospitati circa 70 uomini e 30 donne, e non ci sono altri posti. Nei 13 centri d’Italia, in questi giorni, le brande libere si contano sulle dita di una mano. Ciò significa che un clandestino per il quale è stato emesso a Roma un decreto d’espulsione, dovrà essere scortato magari a Bari o a Milano: due uomini, se non tre per i casi più "indisciplinati", e un’auto sottratta al controllo del territorio. Trasferta andata e ritorno in giornata, il «servizio navetta» di ogni residence che si rispetti.
Mat. Vin. (Il Tempo)
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I fondi neri del Mose "gestiti" dalle coop rosse


Il presidente Mazzacurati (Cnv): "Marchese (Pd) curava i 

conti della sinistra". Referente anche all’epoca dei Ds


Il «sistema» tangentizio dietro gli appalti al Mose di Venezia seguiva un doppio binario. Da una parte c’erano delle specie di «stipendi» registrati in contabilità. Dall’altra c’erano finanziamenti compiuti grazie ai «fondi neri» costituiti attraverso un giro di false fatturazioni. Un fiume di denaro sporco, come il mezzo milione di euro che finisce dritto nelle tasche di Giampietro Marchese, esponente di spicco del Pd ed ex riferimento veneto degli allora Ds, creato anche grazie alle Coop rosse.
Gli atti investigativi della Finanza, svelano un meccanismo per distribuire tangenti, dai partiti di centrodestra a quelli centrosinistra. Denaro che andava a foraggiare le tasche della politica. C’è il caso dei «contributi» a Marchese. Il capitolo è quello dedicato ai «finanziamenti in nero», «trattasi del secondo meccanismo di finanziamento scoperto, ossia finanziamenti Cvn con risorse create tramite false fatturazioni da imprese consorziate a Cvn, pagamento del Cvn delle fatture alle consorziate, retrocessione di parti di questi importi al Cvn e consegna diretta in nero da Cvn al Marchese di questi somme». Questo lo schema di come, fra il 2005 e il 2013, erano costituite le somme e poi girate nelle tasche di Marchese. Ma chi era esattamente questo personaggio della sinistra? Lo racconta Giovanni Mazzacurati, presidente del consorzio Cvn: «Una persona che curava, diciamo, i conti direi della sinistra politica, come la persona con cui dovevo parlare per metterci d’accordo sulle dazioni che fossero state necessarie». In sostanza, Marchese «era il collettore dei soldi del Cvn per la sinistra, così come Galan e Chisso lo erano per la destra». A chiarire i contorni del ruolo dell’esponente del Pd è Mazzacurati: «Erano somme in contatti…C’erano delle occasioni in cui c’era bisogno di questo, così, a seconda dei tempi». Il denaro, frutto delle false fatturazioni, faceva un giro molto particolare: «Quelli che ricevevo da Savioli (Pio, componente del consiglio direttivo del Consorzio Venezia Nuova, ndr) provenivano dalle cooperative chiamiamole di sinistra (…) c’era il Coveco…poi il Coveco aveva nel suo interno varie cooperative». Finanziare Marchese, dunque, era necessario. Perché è lui a riuscire nell’intento di far essere favorevole il Pd al progetto del Mose. I rapporti che legano Marchese con Mazzacurati, invece, sono raccontati da Federico Sutto, dirigente del Cvn: «Si sono sempre sentiti, ancora da quando lui diventa consigliere regionale, si sono conosciuti credo su Jesolo inizialmente, quando sono stati fatti i lavori su Jesolo e dopo lui diventa vice presidente del Consiglio regionale, era un po’ il referente per quanto riguarda tutta quanta l’area Ds o Pd dopo e i rapporti li tiene direttamente Mazzacurati».
Intanto Raffaele Squitieri, presidente della Corte dei conti, ha avviato un’inchiesta interna per verificare se siano state rispettate tutte le procedure di controllo compiute negli anni sul Mose. Ieri, inoltre, si sono svolti i primi interrogatori di garanzia degli arrestati. Tra i primi a sfilare davanti al gip, il sindaco di Venezia Giorgio Orsoni. Il difensore del politico ha voluto precisare che Orsoni «non ritiene che gli sia addebitabile nessun tipo di responsabilità e si propone di dimostrarlo attraverso una serie di indagini difensive».
Ivan Cimmarusti  (Il  tempo)
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