domenica 31 gennaio 2010

No alle spose bambine: svolta storica in Arabia Saudita




Quando si parla di Arabia Saudita è facile pensare ad una cultura retrograda priva di diritti umani e civili, dove la religione imperante resta oggi il wahhabismo, la corrente più conservatrice dell’Islam. Qualche giorno fa, però, la fatwa dell’ulema Cheikh Abdallah al Manie sembra aver segnato in positivo la storia di questo paese e dell’intero mondo islamico, patria di Osama bin Laden, che manda i propri rampolli a laurearsi in Occidente, possibilmente America e Gran Bretagna, ma si dimentica dei diritti delle donne.

Abdallah al Maine ha impresso una svolta ad una questione che riguarda ormai da troppo tempo i paesi musulmani, e cioè il dramma delle cosiddette spose bambine. Secondo l’ulema, nulla può giustificare il matrimonio forzato tra un 68enne e una ragazzina di dodici anni, neppure l’esempio di Maometto e Aisha, la più giovane delle sue mogli, che di anni ne aveva nove. “Le circostanze dell’epoca erano diverse da quelle di oggi”, ha spiegato Abdallah, precisando, fra l’altro, che il Profeta avrebbe consumato il matrimonio soltanto tre anni più tardi. La fatwa segna una svolta di portata epocale nella giurisprudenza islamica, perché stabilisce la liceità di interpretare il Corano secondo lo spirito e i costumi del tempo presente, in contrasto con una interpretazione letterale delle Sacre Scritture. Inoltre, la sentenza è stata emessa da un ulema wahhabita in Arabia Saudita, e rappresenta quindi un passo in avanti nella guerra all’estremismo islamico, motore di organizzazioni terroristiche come Al Qaeda.

Secondo il quotidiano arabo al Riyadh, la dodicenne è stata data in sposa, contro la propria volontà e quella della madre, a un uomo che vive a Bouraida, a nord della capitale Riyad. Il matrimonio sarebbe stato già consumato, ma la madre si è rivolta alla Commissione saudita dei Diritti dell’Uomo per ottenere il divorzio. Purtroppo, il caso della dodicenne di Bouraida è soltanto l’ultimo di una lunga serie. L’ultimo rapporto delle Nazioni Unite stima che nel mondo musulmano ci siano circa 60 milioni di “spose bambine”, tutte con età inferiore ai tredici anni, con un marito sempre molto più anziano e mai incontrato prima.

Due anni fa arrivò una notizia sconvolgente dallo Yemen. Nojoud Ali, una bambina di otto anni, si era presentata in tribunale, per chiedere il divorzio da un trentenne, che la picchiava e la violentava, e che aveva sposato soltanto per volere del padre. Nojoud, grazie all’aiuto dell’avvocato Chadha Nasser, è riuscita ad ottenere il divorzio, e il giudice Muhammed al Qadhi ha ordinato l’arresto del padre e del marito aguzzino. Trasferitasi a Parigi, la giovane ha pubblicato un’autobiografia, “Io, Nojoud, dieci anni, divorziata”, che tradotta in 15 lingue, è diventata oggi il simbolo della battaglia femminista contro i matrimoni forzati.

Anche se la maggior parte delle altre piccole spose come lei non sono state così fortunate, segnali di speranza sembrano arrivare dal mondo musulmano. Per il ministro della Giustizia saudita, Mohamed al Eissa, intervistato qualche giorno fa dal quotidiano arabo Asharq al Awsat, “non è possibile contestare le fatwa che consentono matrimoni di giovani ragazze”, ma allo stesso tempo bisogna evitare che queste unioni siano soltanto “uno svantaggio per le spose”. Negli ultimi vent’anni, infatti, i divorzi in Arabia Saudita sono cresciuti dal 25 al 60 per cento, e la causa principale sembra essere proprio la differenza di età fra coniugi. Un fenomeno, come ha precisato anche il ministro al Eissa, di cui lo Stato non può non tenere conto.

Le donne, inoltre, rappresentano l’ultimo alleato dell’Occidente contro l’islamismo. Sono il ventre molle dell’Islam, le uniche che possono modificarne gli aspetti più radicali e guerrafondai, perché sono le prime vittime dell’integralismo musulmano. E in Arabia Saudita non si arrendono e continuano a lottare contro il wahabbismo di Stato. Un esempio per tutte è la storia di Yara, nome fittizio, che due anni fa è stata prelevata dalla polizia religiosa Mutawwa’in, mentre si trovava in un separè di Starbuck’s, il MacDonald’s della caffetteria a stelle e strisce. Yara allora aveva 37 anni, ed era in compagnia dei suoi colleghi, tutti maschi, soltanto perché c’era stato un black-out in ufficio. Nonostante indossasse l’abaya, tipico indumento delle donne musulmane, e tenesse il capo coperto, gli uomini della Mutawwa’in l’hanno condotta nella prigione di Malaz, dove è stata interrogata, fatta spogliare, perquisita e costretta a firmare la confessione del suo crimine. Se l’è cavata grazie agli appoggi politici del marito, ma ancora oggi ci sono troppe donne che subiscono i soprusi di uno Stato, incarnato da foschi individui vestiti di bianco.

Molte, come Yara, decidono di restare, e di non arrendersi “agli atti terroristici di questa gente”, mentre altre preferiscono trasferirsi all’estero, dove continuano la propria battaglia. Khadija al Salami, ad esempio, regista yemenita che oggi vive a Parigi, nel 2008 ha prodotto il documentario “Amina”, vincitore dell’Horcynus Festival di Messina, in cui si racconta la storia di una bambina di undici anni costretta al matrimonio, e condannata a morte a 15, perché accusata di aver strangolato il marito. Amina, che oggi ha 28 anni, è stata assolta grazie anche all’aiuto di Khadija al Salami. Ma c’è ancora molto da combattere contro “flagellazioni, lapidazioni e amputazioni” che, ha spiegato l’ambasciatore saudita in Gran Bretagna, Ghazi al Qusaibi, “per i musulmani, sono il nocciolo della fede”.

L'occidentale

Nessun commento: