lunedì 26 aprile 2010

Dal Riformista di oggi

Va di moda il politico randagio

di Giampaolo Pansa

I quotidiani di ieri erano dominati da una sola questione: Umberto Bossi vuole la crisi di governo per andare subito a votare. Il Bestiario non crede che le cose stiano così. Il leader della Lega non cerca per niente nuove elezioni. Per almeno tre motivi. Il primo è che il federalismo fiscale, l’obiettivo che più lo interessa, verrebbe rinviato alle calende greche, ossia a chissà quando. Il secondo è che il ricorso immediato alle urne compatterebbe le tante sinistre, nascondendo le crepe profonde nel blocco delle opposizioni.
Il terzo motivo, di gran lunga il più importante, è che il centro-destra le elezioni potrebbe perderle. Mi viene in mente un confronto immediato con le partite di calcio. Un grande giornalista sportivo, Gianni Brera, diceva a noi giovani redattori del “Giorno” di Italo Pietra: ogni partita ha sempre un risultato incerto, per la semplice ragione che il pallone è rotondo e va dove vuole.

Il “Giuan” era un padano doc e credo che anche Bossi se lo ricordi. Correre alle urne, per votare alla fine dell’estate, rappresenta una scommessa rischiosa tanto per lui che per Berlusconi.

La coppia B&B ha fatto tesoro di quanto è accaduto un mese fa nelle regionali: l’aumento impressionante dell’astensionismo. Le astensioni hanno ferito tutti i partiti maggiori, ma in modo violento il Popolo della Libertà. Che cosa accadrebbe se il rifiuto di andare al seggio diventasse più devastante? Gli esperti elettorali di B&B sudano freddo.
Al blocco di governo resta, comunque, un problema da risolvere: quale atteggiamento tenere nei confronti del ribelle Gianfranco Fini. Qui la faccenda si complica. I partiti nuovi, come il Pdl e la Lega, di solito non hanno la pazienza astuta di quelli vecchi. Soprattutto se sono strutture fondate sul carisma di una persona. Per questo non sopportano che qualcuno osi incrinarlo e ne metta in dubbio l’autorità assoluta. E non appena si trovano di fronte a un dissenso organizzato, non perdono un istante a soffocarlo.

I partiti vecchi, quelli della Prima Repubblica, avevano una pazienza maggiore. Nel Pci cacciarono i quattro del manifesto soltanto dopo nove mesi di riflessioni, di dubbi e di incertezze. E quando li radiarono, nel novembre 1969, le Botteghe Oscure si resero conto subito di aver sbagliato. Infatti quella decisione dura provocò la nascita o il rafforzamento di un gruppo politico destinato a dare molto fastidio al Partitone rosso.
In casa democristiana ricordo una sola espulsione clamorosa. Accadde nel 1954 e i dissidenti erano due: Ugo Bartesaghi, un deputato di Lecco, e Mario Melloni, anch’egli deputato, un dicì importante che aveva diretto l’edizione milanese del Popolo ed era stato a fianco di Alcide De Gasperi nel grande comizio in piazza Duomo, alla vigilia del 18 aprile.

Melloni e Bartesaghi erano contrari all’Unione Europea perché prevedeva una parziale integrazione militare dei paesi membri. E il 23 dicembre 1954 votarono contro la ratifica del trattato. Quella sera stessa, il segretario della Dc, Amintore Fanfani, riunì la direzione del partito ed espulse i due dissidenti. Fu un blitz con un passivo terribile. Melloni diventò comunista e con lo pseudonimo di Fortebraccio si rivelò il critico più carogna della Balena Bianca.

Non vedo come il Cavaliere possa cacciare Fini dal Pdl. Non può neppure sfiduciarlo come presidente della Camera. Schiumando di rabbia, dovrà lasciarlo dove sta. Nemmeno il ricorso alle urne avrebbe senso. Sarebbe come usare la bomba atomica per distruggere un nido di vespe. Uso la parola vespe o vespaio senza nessun intento offensivo verso Fini e la sua pattuglia. Le vespe non vanno mai prese sottogamba. Sono insidiose, non smettono di attaccarti. Se poi si alleano con i calabroni, possono farti molto male.
E allora tutto dipende da quello che Fini deciderà di fare. Non vedo calabroni correre in suo aiuto. Quelli del Partito democratico sono tanti, ma il loro lavoro è di pungersi l’un l’altro. Del calabrone Di Pietro è meglio non fidarsi: Fini passerebbe al servizio di un padrone più superbo del Cavaliere.

Se è vero che Fini non smetterà di fare la guerriglia contro il centro-destra, dovrà lavorare in solitudine. E per la prima volta da quando Giorgio Almirante lo mise in carriera, si troverà in una condizione che non ha mai sperimentato: essere un politico senza partito che tenta di resistere contando solo sulle proprie forze. Certo, dopo la rottura violenta con il Pdl, potrebbe dar vita a un gruppo parlamentare autonomo. E di qui tentare la costruzione di una parrocchietta. Ma la strada per arrivarci sarà davvero lunga e impervia.
Il vero rischio per Fini e dei suoi pochi o tanti fedeli è di ingrossare le fila dei politici randagi. Parlo di chi ha lasciato la casa madre e adesso va cercando un approdo nuovo. È una figura sempre più frequente, in quest’epoca complessa. Sì, il politico randagio è di moda. Penso a Francesco Rutelli, a Giuseppe Pisanu, a Clemente Mastella, a Nichi Vendola (già ben piazzato), al neo-comunista Marco Rizzo, il Pelatone rosso di tante mie polemiche, che mi spiace non vedere in azione.

Lo so che fare il randagio da presidente della Camera è molto comodo. Rimane da capire quanto tempo Fini resisterà in quell’incarico. E in quale modo se ne servirà. C’è da sperare che si comporti con misura. Rinunciando alla minaccia di fare scintille in Parlamento. Attenti agli incendi provocati da una favilla. Possono divorare tutti: i capi partito, i ribelli, i signori randagi e i cittadini qualunque.

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